In un passaggio delle oltre seicento pagine che compongono il suo ultimo romanzo, I giusti (traduzione di Claudia Cozzi, Iperborea, pp. 636, € 19,50) Jan Brokken cita André Malraux, ospite come lui dell’albergo Astor House di Shanghai nel 1920 durante la stesura della Condizione umana: «Un uomo è ciò che nasconde». Questa frase pare attagliarsi perfettamente anche al caso di Jan Zwartendijk, l’enigmatico personaggio che lo scrittore olandese ha «rincorso» fino in Cina. Dirigente della Philips nonché console dei Paesi Bassi in Lituania nel 1940, Zwartendijk tacque a lungo sulla vicenda quasi inverosimile che l’aveva visto protagonista durante la guerra.

Nell’esercizio delle sue funzioni diplomatiche e coordinandosi con Chiune Sugihara, il collega nipponico di stanza a Kaunas, aveva reso possibile la fuga di circa cinquemila ebrei provenienti da tutta l’Europa orientale, ma anche dall’Olanda, grazie a un geniale escamotage, e cioè scrivendo sui loro passaporti che per andare in Suriname, a Curaçao e negli altri territori olandesi situati in America non era necessario alcun visto. A sua volta, Sugihara rilasciava loro, vergandolo accuratamente in ideogrammi con un pennino, un permesso di transito per il Giappone, dal momento che all’epoca era impossibile raggiungere dalla Lituania quei lontani ed esotici possedimenti coloniali seguendo la rotta atlantica: la Germania aveva già bloccato l’intera costa del Mar Baltico. Non restava che munirsi di un biglietto ferroviario per la Transiberiana e arrivare fino a Vladivostok, imbarcandosi di lì per Kobe o Yokohama. Molti profughi ripararono anche in Cina, in attesa di ripartire alla volta dell’America, oppure della Palestina.

Impossibile calcolare esattamente quante persone siano sopravvissute grazie all’iniziativa personale di Zwartendijk: con un solo «pseudovisto» per le Antille Olandesi viaggiavano spesso interi nuclei familiari. Questa incertezza sull’effettivo successo dell’operazione afflisse sino alla fine dei suoi giorni l’ex console, che al rientro in patria nascose per decenni quanto aveva fatto, prima per proteggere la propria incolumità (i Paesi Bassi erano stati invasi a loro volta dai nazisti) e poi per un istintivo riserbo. Zwartendijk morì nel 1976 senza sapere che il 95% dei «suoi» ebrei si erano salvati, un dato che l’Holocaust Research Center di Gerusalemme comunicò alla famiglia soltanto il giorno delle sue esequie. A funestare i suoi ultimi anni fu anche l’ostilità delle autorità olandesi; nel 1964 subì persino una reprimenda da parte del ministero degli esteri (presieduto da Joseph Luns, esponente negli anni Trenta del partito nazionalsocialista locale) per aver agito in violazione delle regole consolari, senza attendere il benestare del suo governo.

Con passione e acribia Brokken riporta alla luce la vicenda dimenticata di colui che nel 1997 fu riconosciuto dallo Yad Vashem Giusto tra le nazioni, mettendone in risalto sia gli aspetti più avventurosi, sia quelli apparentemente più triviali. Accompagnando come in un unico piano sequenza i profughi da Kaunas fino al Giappone e alla Cina, l’autore sottolinea come la distruzione degli ebrei d’Europa sia stata non solo la conseguenza del sistematico piano di sterminio messo in atto dalla Germania di Hitler, ma anche l’effetto della mancata accoglienza da parte degli altri paesi. Uno scenario che evoca paralleli inquietanti con l’attualità.

Nel capitolo conclusivo, dedicato alle fonti, lei spiega di aver sentito parlare per la prima volta di Zwartendijk nel 2007, mentre era a Vilnius impegnato nelle ricerche per «Anime baltiche»: al console olandese lei aveva pensato in un primo momento di dedicare un capitolo accanto a Hannah Arendt, Gidon Kremer e Mark Rothko. Quando ha capito che la sua storia valeva invece un libro a se stante?
Devo tutto a Dovid Katz, studioso di lingua e letteratura yiddish, che mi ha mostrato una fotografia di Zwartendijk esposta nel piccolo museo ebraico di Vilnius. «Quest’uomo nel 1940 era console olandese in Lituania, ha salvato la vita a migliaia di ebrei, eppure nessuno lo conosce. Lei è uno scrittore neerlandese, e non ha ancora scritto di lui, dovrebbe vergognarsi», così mi ha rimproverato. Jan Zwartendijk abitò a Kaunas dal 1938 fino al settembre del ’40 in veste di direttore della filiale lituana della Philips. Non era una «anima baltica», era nato e cresciuto a Rotterdam, dove suo padre gestiva una fabbrica di tabacco. Un classico commerciante olandese, né più né meno. Conosco bene questo tipo di individui, ho frequentato anch’io le scuole superiori a Rotterdam e i padri dei miei compagni erano identici a lui: affascinanti, cosmopoliti ed estremamente concreti. Chiesi subito al professor Katz quando avesse messo in salvo quelle persone. Mi rispose: giugno-luglio 1940. Così presto! Nell’estate del 1940 Zwartendijk aveva già detto ai suoi figli: «Devo aiutare queste persone, altrimenti le uccideranno». È stato questo dettaglio a spingermi a scrivere, volevo cercare di capire come mai avesse previsto ciò che gli altri non vedevano, o fingevano di non vedere.

Qual è il ruolo che fa svolgere, nel suo libro, alla fotografia? È un «certificato di presenza» come sostiene Roland Barthes, un documento, oppure uno stimolo per l’immaginazione e la scrittura?
Mi affascina la definizione di Barthes, credo però che per me fosse importante anche un altro aspetto. La vicenda che ho ricostruito nei Giusti non era soltanto ignota ai più, ma anche lievemente inverosimile. La figura del console giapponese Sugihara, quest’uomo tanto bizzarro quanto ingenuo, il ruolo stesso che l’Impero del Sol Levante, un alleato di Hitler, ha svolto nell’operazione di salvataggio, l’apporto tutto sommato positivo fornito da Stalin… Dovevo dimostrare che si trattava di una storia vera, che tutto ciò era accaduto realmente. Compresi i massacri commessi dal Fronte Attivista Lituano a Vilijampole, di cui ho pubblicato le immagini terribili. Ma le foto d’epoca – e, in particolare, quelle scattate dai reporter giapponesi per la mostra L’ebreo errante – ci restituiscono anche lo spaesamento dei profughi giunti a Kobe dall’Europa orientale, la loro commovente estraneità rispetto a quel paese che li aveva insperatamente accolti.

Secondo Marianne Hirsch, viviamo nell’epoca della «post-memoria»: i testimoni diretti se ne sono andati o se ne stanno andando e i tentativi dei discendenti dei superstiti (spesso i loro nipoti, la cosiddetta «terza generazione») restano inevitabilmente frammentari, non solo per via della distanza temporale, ma anche a causa della scomparsa di alcuni luoghi legati a eventi drammatici. Lei, al contrario, sembra piuttosto ottimista circa la possibilità di ricostruire, almeno in parte, la verità storica. Quali zone dell’operazione di salvataggio restano tuttora in ombra, malgrado le sue ricerche?
Mi sono rivolto ai testimoni oculari per rendere viva questa storia, e ho avuto la fortuna di incontrare Edith, di poter leggere gli appunti di suo fratello Jan jr., morto nel 2014… Anche se conosco bene i rischi della storia orale. La memoria sopprime i fatti o li distorce. Per esempio, Jan jr. scrive di aver visto dopo l’ingresso delle truppe sovietiche a Kaunas il 15 giugno 1940, nazionalisti lituani impiccati a ogni albero del parco cittadino. Edith, che era insieme a lui, sostiene al contrario di non serbarne memoria. La prova delle esecuzioni l’ho trovata negli archivi. Occorre sempre verificare le testimonianze orali. Un altro caso, di segno opposto: si ipotizza che Zwartendijk, al ritorno nei Paesi Bassi, abbia organizzato nel 1942 una analoga operazione per permettere ai dipendenti della Philips di origine ebraica di raggiungere l’isola di Curaçao, nel Mar dei Caraibi, via Barcellona. Il tentativo fallì e non esistono documenti che provino il fatto che fosse stato intrapreso o concepito, perché ovviamente tutto doveva svolgersi nella massima segretezza, l’azienda all’epoca era sotto l’amministrazione controllata degli occupanti tedeschi. Tuttavia, sussistono numerosi indizi in tal senso, e per me era importante sottolineare come l’ex console avesse proseguito la sua opera anche dopo il rientro in patria.

Sebbene lei si concentri, giustamente, anche su coloro che lo aiutarono nel suo piano o ne seguirono l’esempio – Sugihara innanzitutto, ma anche il console generale dei Paesi Bassi a Riga De Decker, oppure il suo omologo a Stoccolma Adriaan Mattheus de Jong – Zwartendijk monopolizza in maniera evidente la sua immaginazione. Cos’è che la affascina tanto nella sua figura?
Il fatto che con i suoi «pseudo-visti» avesse escogitato una via legale, o meglio semi-legale, per aiutare i profughi ebrei giunti in Lituania dalla Polonia. E che, rivolgendosi a Moses Beckelman, rappresentante dell’American Jewish Joint Distribution Committee a Kaunas, avesse addirittura trovato un modo per finanziare l’esodo. La sua iniziativa tenace, razionale e silenziosa è l’esatto contrario del caos che contrassegna oggi l’odissea di chi dall’Africa cerca salvezza in Europa. Un disordine che, purtroppo, mette a repentaglio le stesse esistenze dei fuggiaschi. Zwartendijk, al contrario, fu molto efficiente. Non voleva essere affatto considerato un eroe, ai suoi figli disse soltanto: ho fatto quello che dovevo fare. E, per di più, senza essere mosso da una fede politica o religiosa, bensì esclusivamente dalla sua coscienza. L’altro personaggio significativo è sua moglie Erni, che l’ha sempre sostenuto: era una spensierata ragazza praghese appartenente alla minoranza di lingua tedesca, che però odiava con tutte le sue forze Hitler. Simili contraddizioni mi appassionano.

Un altro dato che emerge con estrema chiarezza è una componente spesso taciuta di ciò che il sociologo Eugene M. Kulischer ha definito «Europe on the Move», e cioè i risvolti economici degli impressionanti spostamenti forzati della popolazione del Vecchio Continente durante la guerra…
L’operazione lanciata da Zwartendijk mette in luce l’egoismo della società occidentale di fronte alla minaccia che si andava profilando. In fondo, lui non fece altro che cercare di riparare, in un modo alquanto fantasioso, alla chiusura dei confini. La stessa Olanda adottava misure restrittive sin dal 1934, mentre gli Stati Uniti avevano annunciato già nel 1939, che non avrebbero più accolto altri rifugiati ebrei. Al contrario, Stalin si dimostrò imprevedibilmente «ospitale» e tollerante nei loro confronti: il viaggio fino a Vladivostok organizzato dall’Intourist e sorvegliato dalla polizia politica costava ai profughi 400 dollari. Una somma per lo più finanziata dalle associazioni caritatevoli ebraiche americane che andava a rimpinguare le casse sovietiche, a corto di valuta straniera.

Lei è nato poco dopo la fine della guerra. Crede che una simile coincidenza di ordine biografico, insieme ai suoi ricordi personali, abbia influenzato in qualche misura la decisione di passare quattro anni della sua vita viaggiando da Vilnius al Giappone, da Shanghai all’Australia, sulle orme degli «ebrei di Zwartendijk»?
Mio padre è stato internato in un campo di prigionia nipponico sull’isola di Sulawesi in Indonesia dal 1942 fino al settembre 1945. I giapponesi lo misero ai lavori forzati, come Dostoevskij. Credo che sia stato proprio questo a spingermi a ricostruire la vicenda dell’esilio del romanziere russo a Semipalatinsk nel Giardino dei cosacchi. Nel frattempo, mia madre e i miei due fratelli erano rinchiusi in un altro campo, a duecento chilometri da quello di mio padre. Essendo nato nel 1949, non ho un’esperienza diretta della guerra, ma sono cresciuto in un’atmosfera condizionata dai traumi che i miei familiari avevano subito in epoca bellica. Quando sono andato in Giappone a cercare materiale per I giusti, ho preferito non dirlo ai miei fratelli, per non ridestare in loro lontani ricordi.