Nel 1935, Hermann Broch, autore di incerto successo e di precarie sostanze, che aveva pubblicato romanzi difficili come I sonnambuli e La grandezza sconosciuta, viene invitato dalla radio austriaca a leggere brani delle poesie appena pubblicate nella raccolta Patmos. Zwölf Lyriker. Rifiuta: per principio è contrario alla lettura di liriche, soprattutto alla radio dove tutti si annoiano a morte, «compreso colui che legge». Propone invece una conferenza dal titolo impegnativo, La letteratura alla fine della cultura, che non verrà mai trasmessa per arcani motivi di contabilità.

Il ritegno autoironico di Broch e la sua proposta di scambio tra la lirica e il saggio offrono una guida per accostarsi a quei testi poetici dilatati di ambizione e di teoria: se la prosa si offre amichevole e pedagogica all’ascoltatore radiofonico, la lirica si ritrae nello spazio privato di un processo di conoscenza che lo scrittore suggerisce e, insieme, nasconde mimando le strategie degli antichi profeti. «La poesia – scrive – è veggente attesa nella penombra, è abisso che sa della penombra, è attesa sulla soglia, è comunione e insieme solitudine, è promiscuità e paura della promiscuità… oh, poesia è attesa, non è ancora partenza, ma perenne congedo».

Le liriche raccolte nella silloge di Patmos hanno un calco antico: Klopstock e il giovane Goethe vengono fatti rivivere nel verso e nel rapporto tra uomo e natura che percorre l’intero ciclo. Broch propone così un salvataggio della cultura (e di quella tedesca in particolare) dal naufragio, ma lo fa a prezzo dell’intrusione di un elemento terzo incongruo e problematico: sono concetti/parole ricche di astrazione e di assenza – il passato, il non nato, l’invisibile, l’inalienabile, il divino – che rompono ogni armonia sette-ottocentesco nella consapevolezza di un infinito esilio. «La poesia è il sogno consapevole di sognare se stesso – scrive a proposito di Hofmannsthal – e di accedere alla universalità e all’unità; è, insieme, mito e logos che si inerpica dimostrativo e un po’ claudicante oltre la crisi dei valori del suo tempo.

Stagioni di una vita
Anche se sono poche le liriche dello scrittore austriaco che l’amico Erich von Kahler collaziona per il primo volume delle opere complete di Broch nel 1953 (una sessantina di pagine appena, compreso il ciclo pubblicato in Patmos), la poesia accompagna fedelmente lo scrittore dal 1913 al 1949 attraverso le diverse stagioni di una vita inquieta: dirigente d’azienda, di nuovo studente all’università di Vienna, all’inizio di una carriera letteraria tardiva cominciata nel 1931 con la prima parte dei Sonnambuli, poi nelle fasi concitate della prigionia e dell’emigrazione, prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, munito finalmente di una cittadinanza e di una cattedra di tedesco all’Università di Yale.

Al 1913 data anche l’inizio delle storie che compongono Die Schuldlosen (Gli incolpevoli, l’ultimo romanzo di Broch del 1950) undici racconti per ricostruire due decenni di storia tedesca, esplicitamente contemporanei a quei primi tentativi poetici: «Millenovecentotredici –, perché farne poesia? Per ripassare al vaglio la giovinezza mia.» scrive Broch all’inizio del romanzo. Ma non si tratta solo di una continuità biografica: «Sono assolutamente convinto che il presentimento lirico sia il movens di tutte le mie opere», afferma nei mesi della pubblicazione della Morte di Virgilio. Effettivamente, Broch ha scritto sempre poesie: tra le pieghe dei suoi romanzi, nelle lettere, nelle dediche dei suoi libri o pensando ad una autonoma pubblicazione, persuaso che l’arte fosse comunque lirica.

La consuetudine con la poesia, testimoniata in tutti i suoi romanzi (come del resto anche nei testi teatrali) non è solo quel «trascendimento verso il lirico» che secondo Lukács caratterizza il romanzo moderno orientato alla messa in scena della pura interiorità: per Broch va citata e corteggiata perché riesce a lambire la dimensione dell’assenza e gli consente di allontanarsi dalla forma romanzo per proiettarsi verso un inedito meticciato con l’epica antica.

Diceva: «Le poesie costituiscono la parte più importante della mia produzione», ma con Dichtung intendeva due costellazioni ben diverse: un genere letterario, plasmato da tempi e visioni del mondo, e un processo di avvicinamento alla conoscenza, al mito e all’eterno, perché –- scrive Broch in un passo molto noto – comporre anche una sola poesia «significa per me acquistare conoscenza attraverso la forma».

Hannah Arendt, interlocutrice privilegiata della vita ansimante di Broch, scrive nel 1946 a Karl Jaspers della Morte di Virgilio, mettendone in evidenza soprattutto gli aspetti lirici: «Avete sentito nominare, da voi, Der Tod des Vergil di Broch? È una grande opera di poesia, la più grande in lingua tedesca, mi sembra, da quando è morto Kafka. Broch è riuscito così bene ad unire la speculazione filosofica con la materia poetica, che la speculazione stessa diviene azione narrativa, il che significa ricca di tensione, e questo è in fondo già di per sé un connotato di bellezza».

Eppure, malgrado Broch rivendichi la centralità della lirica nella sua scrittura, le poesie sono state relegate tra i materiali minori di un autore difficile. Eppure sono coltissime, spiazzanti e stupefacenti e, senza seduzioni, illuminano le trame del vuoto e dell’assenza insieme a un filo sottilissimo di utopia. Le ha pubblicate in versione italiana nel 2009 Città Nuova (per la cura e la traduzione di Vito Punzi) e ora vengono riproposte dall’editore De Piante in una nuova versione, con testo a fronte, ampliata e, in parte, rivista: La verità solo nella forma Poesie 1913-1949 (pp. 180, € 14,00, con una breve introduzione di Giuseppe Conte e la postfazione dello stesso Punzi. ‘Nuovi’ sono tre testi poetici scritti da Broch nel 1945, dedicati a Else Staudinger, Gabrielle e Paul Oppenheim Errera e Albert Einstein, mentre si perfeziona la resa italiana delle liriche rese difficili dalla pretesa di contenere l’assoluto.

Raffinate traduzioni
Le scelte traduttive di Vito Punzi sono raffinate e amichevoli: tendono a distendere e chiarire dove è possibile, senza forzare, limando con sapienza le sconnessioni e tutelando il lettore dal protendersi ostinato di Broch verso il nulla. È una edizione che risente positivamente della familiarità del curatore con l’opera di Broch (oltre alle poesie, ha curato il Carteggio tra Broch e Hannah Arendt, pubblicato da Marietti nel 2006) e che ha soprattutto l’obiettivo di far conoscere in Italia la poesia di uno dei grandi narratori del Novecento tedesco, anche se forse un indice, qualche nota in più, una postfazione didattica quanto basta avrebbe aiutato il lettore a entrare in questo universo che non si dona, stratificato, ambizioso ed estremamente fragile.