Brit pop, fu vera gloria? Fu davvero un movimento da includere nel novero dei generi musicali storici, accanto a beat, folk, psichedelia, hard rock, punk, grunge ecc.? Oppure può essere catalogato tra le grandi truffe del rock’n’roll, rappresentando solo una colossale macchinazione mediatica per rilanciare la moribonda industria musicale britannica dopo anni di incontrastata egemonia statunitense? Probabilmente non si giungerà mai a una parola definitiva. Erano giorni, quelli dell’esplosione del brit pop a metà anni Novanta, in cui un pimpante ragazzetto poteva avvicinarsi a un giornalista incrociato per caso al festival di Reading, consegnargli un demo e trovarsi mesi dopo a Top of the Pops senza aver inciso una sola nota, unico caso nella storia della trasmissione. Il ragazzo si chiamava Johnny Dean e Menswear il suo gruppo. Durarono un anno scarso, finirono sulle prime pagine del Melody Maker e del New Musical Express come «band meglio vestita del Regno Unito» e rappresentarono il culmine di una faraonica isteria collettiva: tutti ebbero un ritaglio di giornale, 15 minuti di celebrità, un 45 giri definito memorabile. Trainati dal chiacchiericcio Oasis contro Blur, decine di gruppi (Sleeper, Speedy, DexDexTer, My Life Story, Marion, Orlando, solo per citarne alcuni) vivranno una sola estate finendo a ingolfare gli scaffali dei negozi dell’usato. Le Elastica, gruppo di cui faceva parte Justine Frischmann, fidanzata di Damon Albarn (secondo i pettegolezzi ghost writer dei pezzi della band), piazzarono addirittura un brano nelle top ten da ambo i lati dell’Atlantico prima di scivolare veloci nel dimenticatoio. Però, tra tanti lustrini, cotillons e nulla più, passando al setaccio il filone brit pop qualche pepita può restare tra le mani. Proviamo a segnalare nomi e dischi a futura memoria.

PULP

Secondo un critico del calibro di Simon Reynolds, il duello non è Blur-Oasis: la vera battaglia per l’anima del brit pop è quella dei Blur contro i Pulp. Il gruppo muove i primi passi a Sheffield sin dal 1980 (il leader, Jarvis Cocker, aveva addirittura cominciato giovanissimo, nel 1978, ad assemblare ingenue registrazioni casalinghe). Il botto commerciale arriva nel maggio 1995 col singolo Common People. Quell’anno i Pulp sostituiscono all’ultimo momento gli Stone Roses come headliner al festival di Glanstonbury e l’esibizione sfiora il trionfo. A settembre esce l’album Different Classes che si piazza stabilmente al vertice delle classifiche. Con ogni probabilità i Pulp sono gli unici esponenti del brit pop il cui sound, una sorta di sghembo glam rock, è difficile far risalire a fonti precise. La band (attiva sino al 2002 e poi ricostituitasi nel 2011) ha sviluppato un suono intriso di mille rimandi che lo rendono estremamente inglese senza al contempo ricondurlo a questa o a quella influenza. Un po’ come i migliori Smiths.

SUEDE

La loro storia inizia a Londra alla fine degli anni Ottanta dallo stimolo di Brett Anderson (cantante) e Mat Osman (bassista), cui si aggiungono il chitarrista Bernard Butler, il batterista Simon Gilbert e la seconda chitarra Justine Frischmann (che di lì a poco se ne andrà per fondare le Elastica). Tra alti e bassi e defezioni varie, gli Suede, dati ormai per finiti, nel 1996 centrano col terzo album (Coming Up) il loro maggior successo e tornano in pieno sotto la luce dei riflettori. Attraverso un certo gusto barocco e teatrale nell’intonazione e negli arrangiamenti, la band si distingue per la rivisitazione e la resa attuale degli stilemi glam. A partire da David Bowie, del quale clonano un certo approccio intellettuale e dandistico, fino ai T. Rex di Marc Bolan e a un gusto retorico e scenografico che ricorda i primi Queen. Sciolti nel 2003, tornano assieme sette anni dopo e nel 2013, dopo dieci anni dall’ultimo disco, pubblicano l’album intitolato Bloodsports.

SUPERGRASS

Muovono i primi passi nel 1993 attorno al duo Gaz Coombes e Danny Goffey, ai quali si aggiungono il fratello di Gaz, Rob, e Mick Queen. I Supergrass esplodono nell’anno d’oro del brit pop: preceduto dai singoli Caught by the Fuzz e Mansize Rooster, nel 1995 arriva nei negozi I Should Coco che si piazza al n. 1 della classifica inglese. Il disco non è niente di innovativo, ma la sua forza risiede proprio nel rappresentare l’ennesimo, ottimo, esempio di quanto possa essere evocativo e potente il connubio tra fresco e genuino rock’n’roll e il lato più lieve e solare del pop. I Should Coco si caratterizza per melodie brillanti, chitarre presenti e potenti, la particolare intonazione in quasi falsetto di Gaz Coombes e gli stacchi corali degli altri tre soci. La carriera dei Supergrass prosegue a buoni livelli per altri cinque album in studio fino all’aprile del 2010, quando viene annunciato lo scioglimento della band, che per altro era al lavoro con nuovo materiale rimasto finora inedito. L’ultimo concerto del gruppo si tiene a Parigi nel giugno 2010.

THE VERVE

«La storia ha un posto anche per noi, magari impiegheremo tre album per entrarci, ma alla fine saremo lì, nel posto che ci spetta». La spara grossa, nel 1993, Richard Ashcroft, leader dei Verve da Wigan, Lancashire. Soprattutto considerando che i primi due album del gruppo passano più o meno inosservati commercialmente e neppure scatenano grande entusiasmo nella critica. Specialmente il secondo, A Northern Soul, carico di aspettative da parte di Ashcroft e soci (i due singoli che avevano anticipato l’album erano andati abbastanza bene), si rivela un clamoroso insuccesso. Scattano una serie di incomprensioni e liti tra il cantante e il chitarrista Nick McCabe che portano il gruppo a una momentanea separazione. I due riescono però ad appianare i contrasti e sfornano, nel 1997, Urban Hymns, in cui le suggestioni psichedeliche dei due album precedenti lasciano spazio a soluzioni di matrice più cantautorale. Grazie al successo clamoroso delle ballate The Drugs Don’t Work, Sonnet e Bitter Sweet Symphony, i Verve raggiungono una popolarità incredibile, tanto da candidare il gruppo a terzo polo del brit pop in contrapposizione a Blur e Oasis.

THE CHARLATANS

In giro da oltre 25 anni, la band di Tim Burgess con dodici dischi in studio (l’ultimo è di quest’anno), quattro raccolte, tre live e un Bbc Session è più attiva che mai nonostante un paio di membri fondatori siano passati a miglior vita. Nella lunga carriera il gruppo ha fatto diverse conversioni stilistiche, incrociando anche il brit pop. Nel 1995 esce il quarto disco della band, intitolato semplicemente The Charlatans. Dal punto di vista stilistico ci troviamo di fronte a un’opera davvero poco britannica, con la chitarra in primo piano e le tastiere sullo sfondo. Si tratta solo di un momento, anche abbastanza marginale, lungo un percorso ricco di successo e apprezzamenti da parte della critica; va tuttavia citato ad esempio di come il brit pop sia stato anche casualità e marketing. Come detto, nel 1995 il fermento brit pop era al culmine e risultava utile nuotare sull’onda. I Charlatans finiscono così nel giro, sia per l’abile promozione della casa discografica, sia perché allora Burgess viveva a Londra e passava gran tempo a bighellonare coi fratelli Gallagher e Bernard Butler. Da lì a essere associati alla scena brit pop il passo fu breve.

OCEAN COLOUR SCENE

Dopo un album d’esordio omonimo, rinnegato perché la casa discografica lo remixa in stile Madchester, la band entra nei radar prima di Paul Weller e poi di Noel Gallagher. Gli Ocean Colour Scene sono chiamati ad aprire le date dei tour delle due star e così i ragazzi di Moseley, sobborgo di Birmingham, non ci pensano un secondo a saltare sul treno in corsa. Nell’aprile 1996 danno alle stampe quello che sarà il loro miglior album, Moseley Shoals, disco che molto deve alle sonorità Sixties: nel brano The Day We Caught the Train aleggia lo spirito di I Am the Walrus dei Beatles, mentre 40 Past Midnight e The Downstream omaggiano temerariamente gli Stones. Forte è comunque l’impronta personale che la band dà alla loro seconda opera, tanto che The Circle, una canzone d’amore, è senza ombra di dubbio uno degli inni più belli della stagione brit pop.