Rampollo e protagonista della New Hollywood – stessa generazione di Scorsese, Coppola, Lucas, Spielberg – Hollywood gli ha tagliato le gambe ogni volta che un suo film non raggiungeva le vette di cassetta programmate. Una carriera da montagne russe, febbrile diagramma di alti e bassi tracciati dal colore dei soldi degli Studios: con i picchi di epopee mafiose (Scarface, Gli intoccabili) o blockbuster con Tom Cruise (Mission: Impossible), e i tonfi di Il falò delle vanità (dal bestseller di Tom Wolfe) o di paradocumentari su soggetti scomodi, come la condanna delle ‘eroiche’ truppe Usa in Vietnam o in Iraq (Vittime di guerra, Redacted). Cinema sempre ‘in’ battaglia, se non ‘di’ battaglia.

Non a caso il «New York Times» avverte : «Ogni volta che si nomina Brian De Palma, bisogna prepararsi a una scazzottata». «Sono un cane sciolto – replica il regista – Ho sempre criticato l’establishment e non mi ha giovato: i miei lavori non sono mai stati mostrati all’American Film Institute e io non faccio parte dell’Academy degli Oscar. Non son mai entrato, d’altra parte, nella logica industriale di Hollywood. Quando ho finito Mission to Mars, mi son detto: ‘Hai speso cento milioni di dollari: polverizzati nello spazio. Ma che senso ha?’. È la domanda che mi rincorre quando, per testarne l’assurdo, ficco il naso nei colossal del momento: Ma c’è gente che paga il biglietto per vedere questa roba?».

Nato a Newark, nel New Jersey, d’origini italiane sia il padre chirurgo ortopedico che la madre casalinga, scuole protestanti a Filadelfia, facoltà d’ingegneria a Manhattan, tre mogli fugaci –‘79-83: Nancy Allen (sua attrice in Carrie, Home Movies – Vizietti familari, Vestito per uccidere e Blow Out), ‘91-93: la produttrice Gale Anne Hurd (da cui ha avuto la figlia Lolita, oggi 27enne), e ‘95-97: nuova attrice, Darnell Gregorio, e seconda figlia, Piper, 22 anni – osteggiato in Usa, adorato in Europa, in particolare nella cinefila Francia, De Palma è l’ospite d’onore d’un denso omaggio alla Cinémathèque Française de Paris, con la personale completa, dal 31 maggio al 7 giugno, e la presentazione del suo primo romanzo poliziesco, edito da Rivages, Les Serpents sont-ils nécessaires?, dagli evidenti richiami allo scontro elettorale Trump-Clinton.

Un omaggio eccezionalmente punteggiato di numerose apparizioni in pubblico del regista. Perché De Palma, cultore sullo schermo di sdoppiamenti e voyeurismi, nella vita quotidiana capovolge il suo cinema: si diminuisce e sottrae alla vista, sparendo nella folla. Nei festival, atteso ai riti d’obbligo, preferisce schivare il tapis rouge e cancellarsi tra il pubblico, per assistere alle proiezioni in assoluto anonimato: unica ragione, per lui, d’essere lì.
È a Montreal che il regista americano aveva messo radici, nelle sale infinite del Festival des Films du Monde, prima che la rassegna, qualche anno fa, sparisse: puntuale, fedelissimo negli anni ‘80-90, sempre curioso, mai sazio. Allora di stazza massiccia, non proprio invisibile, oggi, a 78 anni che compirà l’11 settembre, smagrito e infragilito, l’acidula barbetta sale-pepe, l’occhio tuttora vigile e pungente. Addirittura, allo scorso Torino Film Festival, dov’era in programma la personale alla sua presenza, non ha nemmeno messo piede.

L’autore del «Fantasma del palcoscenico» è un fantasma dei festival?

Ogni festival è una vendemmia, prima che i film vengano imbottigliati e spediti in giro. Tante pellicole insieme sono un’esplosione d’emozioni, concentrate in pochi giorni. Un delitto, per lo spettatore che non ne approfitti. Nei festival, preferisco farmi spettatore, anziché salire in cattedra. Che c’è di meglio nelle cine-adunate che immergersi nel buio e stare a guardare?

Anche a Venezia?

Alla Mostra, sono stato nel 2006 e 2007 con Black Dahlia e Redacted (premiato con il Leone d’argento) e nel 2012 con Passion. Venezia è una città marziana, tutta cinema ma, per me, anche musica: quella dell’amico Pino Donaggio, autore delle colonne sonore di 8 miei film.

«Passion» evoca la sua antica perizia d’ingegnere e l’entusiasmo per le nuove tecnologie.

È una febbre che mi ha trasmesso da ragazzino mio fratello maggiore Bruce, scomparso nel ‘97, orgoglio di famiglia per l’acume scientifico. Al liceo lo emulavo: ho vinto un concorso con lo studio su «L’applicazione della cibernetica alle equazioni differenziali» e ho fabbricato con lui computer primordiali. Per me gli smartphones sono la più importante delle invenzioni recenti, perché ci modificano profondamente la vita. Perciò ne ho fatto un ingranaggio di Passion, la sua metafora chiave.

L’intero suo cinema non è una sorta d’ingegneria visiva?

Sì, un cinema fatto di cinema: remake, omaggi ai registi «de chevet». Tutti citano la cine-copia, ironicamente corretta, negli Intoccabili, della carrozzella saltellante sui gradini della stazione di Chicago, che ripete, ma con happy end, il precipizio della scalinata nella Corazzata Potemkin, sequenza di culto divenuta la Gioconda coi baffi del cinema, a partire dalla parodia in Il dittatore dello stato libero di Bananas di Woody Allen.

E «Omicidio a luci rosse» è l’accumulo incrociato di tre Hitchcock, «Obsession – Complesso di colpa» è il suo «Vertigo».

Non è un segreto che Vertigo è il film che mi ha più impressionato da giovane, spingendomi a lasciare le ricerche scientifiche per dedicarmi al cinema e all’arte. Ho cercato di incorporare il credo di Alfred Hitchcock, mio mito, per cui ‘il cinema è come la vita senza le sue parti noiose’. Ma i critici più velenosi mi hanno sempre rinfacciato di ‘riuscire a rimettere nei film tutte le parti noiose della vita’…

Invece si diverte a mettere nei suoi film i film degli altri, da Hitchcock a Antonioni, a Argento: il piacere della ‘riscrittura’?

Sono talora tentato, presuntuosamente, di migliorare il cinema che amo. Mi piace rimettere le mani sui film già fatti, sui personaggi ormai definiti, perché c’è sempre qualcosa che si può aggiungere, togliere, aggiornare. Il mio grande sogno? Una versione del Tesoro della Sierra Madre di John Huston, con i protagonisti premiati non da un giacimento d’oro ma di cocaina, oro del nostro tempo. Un’idea affiorata con Scarface: al remake del film di Howard Hawks, con cui 35 anni fa ho consacrato star Al Pacino, ero stato spinto dalla prospettiva di calarmi nella comunità cubana della Florida e nell’universo della coca, che nelle montagne si raccoglie a costo zero ma, arrivata in città, vale milioni, dopo aver rimbambito strada facendo i trafficanti incapaci d’astenersene.

Il suo filtro cinefilo non si è limitato a manipolare, ma ha prelevato ‘pezzi’ originali: di Hitchcock, il musicista Bernard Hermann e, di Orson Welles, Orson Welles.

Li considero i miei due Oscar – ride De Palma – io che non ho mai ricevuto neanche una nomination. A 32 anni ho diretto in Conosci il tuo coniglio quel gigante di Welles, attore formidabile, grande parlatore, geniale regista nel 1940, anno della mia nascita, del miglior film che sia mai stato girato, Quarto potere. Ero esaltato e in pena per lui: pieno di debiti, scartato da Hollywood, aveva accettato di girare un paio di settimane per raccogliere un po’ di soldi per il suo nuovo film.

L’altro suo colpo di fortuna?

L’anno dopo, la colonna sonora di Le due sorelle composta da Hermann, il mago musicale di Psycho, Vertigo, Intrigo internazionale. Non ho mai visto la sua faccia: teneva sempre la testa bassa quando parlava. Un vulcano di collere improvvise, sua reazione alle decisioni sbagliate. Come Welles.

La differenza?

Hermann sosteneva le sue ire fino al raggiungimento dell’obiettivo, mentre Welles, dopo il primo sfogo, lasciava perdere.

Anche Hermann è stato, come Welles, un angelo caduto di Hollywood: come lei?

Fu irremovibile davanti al nuovo obbligo produttivo di scrivere almeno una canzone ‘di successo’ a film – tipo Mrs. Robinson del Laureato o The Ballad di Easy Rider – imposto a partire dagli anni 60 per il prevalere dell’industria discografica su quella cinematografica. Hermann fu categorico: ‘Non scrivo canzonette ma musica da film!’ Lasciò gli Usa per Londra, dove musicò due Truffaut, Fahrenheit 451 e La sposa in nero.

E lei?

No, non mi considero un esule di Hollywood: piuttosto, un rifugiato economico. Mi ci son trasferito a inizio carriera per racimolare dollari, imparando subito la lezione di Allen: prendi i soldi e scappa. Hollywood è una malattia troppo contagiosa: ci resti un minuto di più e ti ritrovi a girare il prossimo Schwarzenegger senza neanche sapere com’è successo.

Scampato al peggio, è al lavoro su qualche suo ‘project: impossible’?

Due film. Nel primo, Happy Valley, dove ritrovo, dopo Scarface e Carlito’s Way, Al Pacino e, insieme, gli amati-odiati Studios, m’ispiro a una storia vera, che ha scosso gli Usa: quella di Joe Paterno, allenatore modello d’una squadra universitaria di football americano, travolto da uno scandalo di pedofilia, che ne ha distrutto 40 anni di carriera portandolo alla morte 7 anni fa. È la discesa agli inferi d’un uomo dal passato esemplare: storia affascinante, degna di Ibsen o di Arthur Miller.

L’altra sua personale ‘mission’ marziana?

Domino, prima coproduzione italiana. Un thriller sulla sulfurea linea di confine Cia-Isis, girato in Sardegna, Danimarca, Scandinavia, con al centro un poliziotto a caccia dell’assassino del suo collega. Un’inchiesta che, dalla Norvegia alla Spagna, attraversa l’Europa minacciata dal terrorismo. Potrebbe portare aria nuova nella Hollywood d’oggi, impegnata a scialacquare milioni in fumetti grande schermo e film-giocattolo.

2 – continua. Le altre puntate (Jean-Pierre LéaudRobert Guédiguian) sono uscite il 2 giugno e il 21 luglio