Se qualcuno poteva ancora dubitare dell’effetto che il neoliberalismo ha sui sistemi politici basterebbe aprire i quotidiani inglesi di questi giorni.
Primo atto: una coalizione di politici opportunisti cavalca la xenofobia pensando che il referendum sia un utile sfogo per gli elettori scontenti ma che alla fine la maggioranza voterebbe per rimanere nell’Unione Europea. I cittadini votano per uscire.

Secondo atto: il capofila della suddetta coalizione, il primo ministro conservatore David Cameron, annuncia che si dimette. Ma non esegue ciò che dovrebbe fare subito a seguito del referendum e cioè una formale richiesta alla Ue per iniziare le procedure di uscita. Se ne riparlerà a settembre.

Terzo atto: i seguaci di Tony Blair, che sono ancora maggioranza nel gruppo parlamentare laburista e non hanno mai digerito la trionfale elezione di Jeremy Corbyn a leader del partito, l’anno scorso, mettono in scena un golpe di palazzo per rovesciarlo, con l’accusa del tutto pretestuosa di aver condotto una campagna poco convincente a favore dell’Europa.

Quarto atto: il principale leader della fazione antieuropea del partito conservatore, Boris Johnson, annuncia che non si candiderà a primo ministro. Prima della fine della farsa ci saranno molti altri colpi di scena, mentre per ora l’unico cadavere sul palcoscenico è quello dell’economia inglese, che gli investitori internazionali hanno cominciato a trattare come la Grecia.

Sarebbe però un errore giudicare lo spettacolo sulla base dei suoi mediocri attori: la sceneggiatura è stata scritta molto tempo fa ed è simile a quella di altri paesi dove i cittadini cercano disperatamente delle alternative ai fallimenti delle classi dirigenti. Poche settimane fa, in Austria, il candidato dell’estrema destra ha preso il 49,7% dei voti, e tutti hanno tirato un sospiro di sollievo perché il candidato dei verdi, Alexander Van Der Bellen, è stato eletto per 31.000 voti di scarto. Si noti che nessuno dei due partiti storici-popolari e socialisti- era neppure riuscito ad arrivare al ballottaggio. Due giorni fa la doccia fredda: il ballottaggio dovrà essere ripetuto.

Se facciamo iniziare dal 1976 l’era della globalizzazione, cioè di quella serie di scelte dei governi che tendevano a ripristinare la precarietà del lavoro e a dissolvere i sistemi di welfare, vediamo che sono passati circa 40 anni dall’elezione di Jimmy Carter negli Stati Uniti e poco meno da quella di Margaret Thatcher in Gran Bretagna. Questi due paesi sarebbero stati quelli che con maggiore determinazione e violenza avrebbero messo in atto il programma sperimentato nel Cile golpista dagli economisti della scuola di Chicago.

Quattro decenni dopo, i cittadini americani e inglesi non sembrano entusiasti: i primi hanno consegnato la candidatura alla presidenza per il partito repubblicano a Donald Trump (e mancato di poco quella di Bernie Sanders), i secondi sembrano voler ristrutturare radicalmente il sistema politico. Guardiamo ai numeri: nelle elezioni inglesi del 1979, conservatori e laburisti ottennero insieme circa l’81% dei voti validi, mentre la partecipazione al voto fu del 76% degli aventi diritto. Nelle elezioni del 2015, conservatori e laburisti hanno raggiunto insieme circa il 67% dei voti validi, mentre la partecipazione al voto è stata del 66%% degli aventi diritto.

In questo arco di tempo i due partiti storici hanno quindi perso la fiducia del 14% dei cittadini, a cui si aggiunge un altro 10% che si è disinteressato del voto, evidentemente convinto che la sua voce non contasse, che le sue preferenze non avessero importanza perché i governi comunque rispondono ad altre logiche, ad altri poteri. In pratica, un quarto degli inglesi ha negato il proprio suffragio a laburisti e conservatori. Se si voterà, com’è probabile, nel giro di qualche mese, questa percentuale è destinata ad aumentare, con ulteriori prevedibili successi a sinistra per il Partito nazionale scozzese (che l’anno scorso ha conquistato perfino il seggio dell’ex primo ministro laburista Gordon Brown) e a destra per l’Ukip di Nigel Farage, finora penalizzato dal sistema di voto ma che nel 2015 aveva già ottenuto un rispettabile 13% dei suffragi.

Questi risultati non hanno nulla di strano o di sorprendente: il neoliberismo ha ridotto i politici ad amministratori di condominio, più o meno onesti ma pur sempre amministratori di decisioni che vengono prese altrove: dai mercati finanziari, dalle banche centrali, dai tecnocrati dell’Unione Europea. Normale che gli amministratori non ispirino molta fiducia, che rubino quando possono, che cerchino disperatamente di restare attaccati alla poltrona anche quando il loro mandato è scaduto. La Gran Bretagna, un pilastro di stabilità istituzionale dal 1688 ad oggi (tre secoli e 28 anni) dimostra che anche i sistemi democratici apparentemente più consolidati possono fare la fine dell’Unione Sovietica, cioè dissolversi in pochi mesi.