La Brexit e i dolori del calcio inglese. In particolar modo della Premier League, che da settimane vive quasi con terrore l’arrivo del prossimo marzo, esattamente il 29, con l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. L’esito del referendum del 23 giugno 2016 che sta mettendo intorno a un tavolo (finora con risultati rivedibili) il governo May e l’Unione Europea rischia di rovinare uno dei giocattoli meglio riusciti nel sistema produttivo britannico, la prima divisione inglese, che nel corso degli anni è divenuto il più importante campionato d’Europa, il più ricco, tra stadi pieni e accordi a svariate cifre con le tv per la cessione dei diritti, con un flusso sterminato di campioni. Dal Manchester United, il club con il brand che vale di più al mondo in termini commerciali, anche più dei colossi spagnoli Real Madrid e Barcellona, ai cugini del Manchester City, poi il Chelsea, il mito senza tempo del Liverpool, l’Arsenal, ma anche le società medio-piccole che possono investire grosse somme sul mercato, rendendo il torneo assai competitivo: la Premier League è vista in 189 Paesi, con 700 mila visitatori, tra quelli che ogni anno visitano il Regno Unito e che assistono almeno a una partita dal vivo, con un serbatoio dipendenti da 12 mila persone, per un volume di tasse complessivo da 3,3 miliardi di sterline (circa 3,7 miliardi di euro). Insomma, una calamita per i migliori calciatori e allenatori mondiali, per gli sponsor, per le multinazionali, con investitori (anche nella proprietà dei club) da ogni angolo del globo, americani, sceicchi, russi, attratti come da un magnete che moltiplica il valore di marchi, atleti, tecnici, dirigenti. Una specie di Nba (il torneo di basket americano, la lega con il tasso più alto di crescita come volume d’affari) del calcio, un giocattolo che decisamente funziona, con ancora margini di crescita, che vende senza sosta in Asia, Australia, in Oriente. Ma tutto può improvvisamente evaporare come una bolla di sapone. Il leave decretato nell’urna dai britannici può provocare la fuga dei campioni e quindi degli sponsor, delle tv a pagamento.

Un rischio concreto, nonostante il compromesso trovato il 25 novembre a Bruxelles tra l’Unione Europea e il governo inglese (che dovrà essere approvato dal Parlamento inglese in questi giorni, con pezzi del governo pronto ad affondarlo), con la libera circolazione di persone e merci anche oltre il 2020, ovvero il periodo di transizione previsto per l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. E se non dovesse essere ratificato, la situazione per la Premier sarebbe ancora più complessa, un no-deal Brexit non lascerebbe traccia di intesa in materia di commercio, legge, sicurezza, immigrazione, con i calciatori non britannici che dovrebbero chiedere un permesso di lavoro per continuare a giocare in Premier e così anche gli ipotetici nuovi arrivi. Infatti (per ora) il permesso di lavoro per i calciatori extracomunitari è legato alle presenze nella propria nazionale, ovvero il 75% delle partite ufficiali disputate con la maglia del suo Paese nel corso dei due anni precedenti alla data della domanda di trasferimento in Inghilterra, con la nazionale che deve pure trovarsi almeno nelle prime settanta del ranking Fifa. Insomma, l’arrivo dei migliori, nonostante il flusso di contante nelle casse dei club di Premier, diventerebbe quasi utopia. In questo momento, le squadre del torneo inglese possono contare su 17 stranieri (massimo) su 25 in rosa, oltre agli homegrown (almeno otto), cioè quelli (anche nati all’estero) che hanno trascorso almeno tre anni – tra i 16 e 21 anni – nell’academy di un club inglese o gallese. Ma con la Brexit non potrà più accadere, si dovrà attendere la maggiore età per firmare un giovane talento. E per questo motivo i club, specie i top club, sono parecchio preoccupati. Solo una deroga alla Brexit consentirebbe di non patire ripercussioni in termini di competività con gli altri principali tornei in Europa, in campo e fuori. Per quantificare il problema Brexit per il calcio inglese Harvard University ha realizzato uno studio: in Premier League, quindi dal 1992 (prima c’era la First Division) hanno giocato sinora 1022 stranieri, con 591 (oltre il 57%) il cui ingaggio oggi sarebbe considerato illegale, perché la Fifa proibisce di mettere sotto contratto calciatori minorenni. In poche parole, il francese Paul Pogba, oppure lo spagnolo Cesc Fabregas del Chelsea, finiti nella quota degli homegrown perché formatisi al Manchester United e all’Arsenal, ora non potrebbero fare lo stesso percorso, arrivando in Inghilterra solo a 18 anni. Una condizione capestro per la Premier, perché i talenti migliori finiranno nella Liga spagnola, in Serie A, in Bundesliga. Mentre l’attuale edizione della Premier contiene il 68% di stranieri sul totale dei calciatori, assai più che negli altri principali campionati europei.

E dunque, per scongiurare l’esodo ma approfittando del big bang che avverrà a marzo per rilanciare la produzione di grandi talenti della Terra di Albione, la Football Association ha presentato alla Premier League – a sua volta accomodata al tavolo con il governo May per studiare una exit strategy dalla Brexit – una bozza che prevede di abbassare il limite degli stranieri a 12. Un incentivo per valorizzare i vivai, le academy, il nerbo delle nazionali, dall’under 15 sino a quella maggiore (anche se il commissario tecnico dell’Inghilterra, Gareth Southgate si è detto contrario a questa soluzione). E sarebbe una rivoluzione. Tutte le big del pallone di Sua Maestà eccedono il limite di stranieri. Spesso il Chelsea allenato da Maurizio Sarri non schiera inglesi nella formazione titolare, così nell’Arsenal. In generale sono 13 le squadre con più del tot consentito di stranieri. Se questa nuova regola fosse introdotta, nella prossima finestra di mercato squadre come Manchester City, Manchester United, Liverpool, Watford, Tottenham, Brighton dovrebbero ridisegnare la rosa.