In un messaggio di fine anno alla nazione concentrato sulla perenne emergenza infettiva, Boris Johnson ha quasi evitato di citare l’infelice crasi tra British e Exit, entrata inesorabilmente in pieno vigore a mezzanotte e un minuto di giovedì ma i cui effetti pratici hanno cominciato a farsi dolorosamente sentire a Dover ormai già da vari giorni. Non sorprende: Johnson sa che dovrà parlare di Brexit per il resto della sua vita retorica di uomo politico, sia da arringatore che da intervistato. E non dovrebbe risentirsene. Di Brexit ha ferito, di Brexit perirà.

I 47 anni di partecipazione britannica all’Ue testé terminati sono un flebile nonnulla rispetto ai milioni di anni occorsi alle isole per staccarsi geologicamente dal blocco continentale europeo.

E l’inconciliabile dissidio fra l’uno e il molteplice esemplificato nel tortuoso rapporto della Gran Bretagna con Buxelles è uno dei leitmotiv della storia d’Europa. L’Europa è una questione tossica per i politici britannici. Spesso ne ha definito le decisioni e le carriere: sia quando facevano umilianti anticamere per colpa di De Gaulle (il tory MacMillan nel 1961 e ’63 e il labour Wilson, nel 1967) che quando ammessi (con il tory Ted Heath nel 1973). Per quella di Thatcher, ondivaga rispetto all’Europa, che negoziò il rimborso (rebate) sul contributo che la Gran Bretagna doveva dare al budget europeo avvelenando il clima e resistette ai tentativi franco-socialisti di Jacques Delors verso il federalismo e la moneta unica, resuscitando con il discorso di Bruges del 1988 le mummie euroscettiche. O per il di lei successore John Major, che firmando il trattato di Maastricht nel 1992 rimetteva a Bruxelles una “sovranità” riconquistata soltanto da Johnson. O per David Cameron, un altro leader che porterà sul collo l’imbarazzante tatuaggio Brexit per il resto della vita.

Ed è proprio a Cameron che è lecito ricondurre la faglia principale che ha portato al distacco: quando nel dicembre 2011, in piena crisi dell’eurozona pose il veto al tentativo di Merkel e Sarkozy di salvare l’Euro per proteggere la City, provocando disappunto a Berlino e soprattutto a Parigi. Per vincere le elezioni del 2015 Cameron, sotto pressione alla propria destra dall’allineamento populista tra Tories euroscettici di vecchio conio e il populismo razzistoide di Farage, decide di concedere l’infaustissimo referendum pur facendo campagna per restare.

Il resto è storia: le elezioni le vince, il referendum lo perde. Dal paese evapora tutta la schiuma cosmopolita depositatasi negli anni di Blair – fiero propugnatore della membership europea del Regno Unito e pronto addirittura a far entrare il paese nell’Euro, mentre i vecchi euroscettici svitati tra i Tories si vedono presi finalmente sul serio dal triplice incubo Cameron/May/Johnson, che li trasforma da scemi del villaggio a think-tank rispettabili, raccogliendo con l’occasione la tutela di quelle fasce operaie della popolazione bianca britannica abbandonate da un Labour tutto intento nel pompaggio della bolla finanziaria la cui esplosione questo triste primo gennaio 2021 è risultato precipuo. Un partito, il Labour, che con i leader socialisti Tony Benn e Michael Foot nel 1983 aveva promesso peraltro di uscire dalla Cee, provocando la secessione degli europeisti nell’effimero Social Democratic Party.

Make no mistake: Brexit non è altro che il velleitario chiudere agli uomini e aprire alle merci di un paese insulare ed ex-egemone in un momento in cui una crisi economica (continentale) e la migrazione (globale) cumulano i propri effetti. È il concorso di colpa in un sinistro nazionalistico fra il credersi depositari di un destino di dominio (eccezionalismo interclassista) e la paura dei migranti, manodopera necessaria al funzionamento dell’economia. Per questo si preferiscono i migranti “nostri” a quelli europei.

Il resto sono memorie di baby boomers innamorati di Beatles e Stones e dei propri viaggi giovanili a Soho in cerca di dischi o per millennials abituati a volare Ryanair con trenta euro per il fine settimana dei saldi a Oxford Street: fantasie di una normalità non più tale da almeno un decennio e che la pandemia porta a rimpiangere come l’eden benché facesse già abbastanza schifo.

Con Brexit la quinta economia mondiale denominata Gran Bretagna – storica fuoriclasse anche e soprattutto nell’aver a suo tempo brevettato un imperialismo dal volto appena meno disumano che quello della concorrenza “continentale” – si genuflette davanti all’ologramma di un sinistro Heimat altrettanto imperialistico, piuttosto che continuare a fianco degli altri paesi occidentali nel tentativo “pragmatico” di sventare il proprio, generale declassamento a potenze vintage, camerieri e lavapiatti nel ristorante che loro stessi avevano aperto.