Dopo il referendum del 2016 erano state annunciate catastrofi economiche per la Gran Bretagna. L’annuncio più preoccupante, considerata l’autorevolezza della fonte, era giunto dalla Banca centrale.

Le previsioni più fosche si basavano sull’ipotesi di una rottura verticale, cioè senza accordo. Ipotesi che alcune rocambolesche vicissitudini del parlamento di Londra avevano reso concreta. Ora un accordo, sebbene travagliato e diluito nel tempo, dovrebbe esserci. L’esito delle recenti elezioni politiche ha dato un mandato forte al premier Boris Johnson per concludere il percorso. La tanto temuta precipitazione delle condizioni economiche britanniche e, di riflesso, dell’Unione europea non dovrebbe verificarsi.

Il punto semmai sono gli assetti che si andranno affermando. In questi primi anni nel segno dell’incertezza, quando tutto poteva ancora succedere tra le parti in trattativa, l’economia anglosassone ha proceduto senza particolari scossoni, nonostante un indebolimento della sterlina che ha favorito un aumento dei prezzi trainato dalle importazioni. Le più autorevoli previsioni continuano a essere negative per gli effetti che l’uscita dall’Unione produrrà in tempi medio-lunghi. Il rischio, però, è quello di leggere i recenti avvenimenti con le lenti del passato, quando la globalizzazione galoppava senza freni.

Oggi il contesto è cambiato, è in corso uno strisciante, ma evidente, ripiegamento dell’economia mondiale. Non esistono veri e propri modelli. La stessa contesa Usa-Cina non è semplicemente lo scontro tra sovranismo e globalismo, ma tra due formule differenti per difendere i rispettivi interessi nazionali. Gli accordi sottoscritti in questa fase, dunque, sono prevalentemente di natura bilaterale, dentro un quadro instabile caratterizzato da bassa crescita. Questi cambiamenti hanno contribuito a consolidare politicamente la scelta di Brexit. L’ambizione del fronte conservatore e populista è quella di liberare la Gran Bretagna da lacci e lacciuoli, per farle giocare un nuovo ruolo nell’arena economica globale, fondato su un profilo ipercompetitivo.

Meno regole, meno tasse, meno ambiente. Obiettivi ancora in voga per tanta parte delle imprese, specialmente nell’asfittico quadro attuale. Significativo l’atteggiamento dell’Economist, rivista ostile a Brexit, che una volta metabolizzata la scelta suggerisce tuttavia di muoversi proprio in questa direzione. Un progetto, dunque, che contribuirà ad alimentare quel vortice verso una concorrenza al ribasso per tutele e diritti in atto da tempo nel Vecchio continente, per il cui sviluppo l’Unione europea non è più sufficiente. Un progetto, però, non del tutto scontato. Un accordo definitivo tra Gran Bretagna e Ue non potrà non prevedere, almeno parzialmente, barriere e controlli maggiori.

Tale prospettiva potrebbe implicare una riduzione degli scambi intracontinentali, una riduzione di investimenti esteri che non è detto siano compensati da un aumento degli scambi con i paesi fuori dall’Unione. Dove invece i britannici potrebbero giocarsi le carte migliori è nel rafforzare il ruolo finanziario internazionale.

Cioè consolidare una piattaforma finanziaria di livello globale, approfondendo la deregolamentazione del settore. Da questa operazione potrebbe dipendere anche una quota crescente di reddito marginale proveniente dai servizi funzionali a un centro finanziario in espansione.

Il ruolo avulso dalla territorializzazione della finanza potrebbe favorire questo esito. Paradossalmente potrebbe accadere che il fronte del leave, concentrato nella working class e nelle aree deindustrializzate e periferiche, finisca per pagare il conto di possibili aumenti del costo della vita e di ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro frutto della scelta isolazionista. Quello del remain, tra i quali si annoverano i soggetti che ruotano attorno alla City, potrebbe invece veder rilanciato il proprio ruolo su una scala ancor più globale.