Effetto domino in nome del popolo e un altro braccio di ferro a Berlino. La Brexit dilata l’euroscetticismo nel cuore dell’Ue, mentre la Spd invoca la “svolta” a Bruxelles e la Csu bavarese rimette all’angolo la cancelliera Angela Merkel.

È la rivolta anti-euro e sovranista che cavalca l’onda del Leave. Marine Le Pen, leader del Front National, tuona da Nanterre: «Una giornata storica: uscire dall’Ue è possibile. Chiedo la Frexit dal 2013 e una consultazione referendaria per recuperare le sovranità della Francia: territoriale, legislativa, monetaria, economica. Oggi non è morta l’Europa ma l’Unione europea, perché le nazioni rinascono».

Da Berlino fa eco Alexander Gauland, vice presidente di Alternative für Deutschland (la destra populista e xenofoba che a marzo è esplosa nel voto in tre Land-chiave): «Penso che Merkel con le sue frontiere aperte abbia espulso gli inglesi dall’Ue. Sarebbe ora di avviare una campagna per replicare in Germania il voto di Londra». E dalla Turingia Björn Hocke: «Gli inglesi hanno lasciato la strada della follia collettiva e optato per democrazia e sovranità popolare. Il popolo tedesco vuole uscire dalla schiavitù di Bruxelles».

Chi si aspettava anche una sponda da Budapest e Helsinki è rimasto deluso. Paradossalmente, il premier ungherese Viktor Orbán ha speso 49 mila sterline (70 mila euro) per far pubblicare sul Daily Mail una pagina alla vigilia del voto: «La decisione è vostra, ma sappiate che l’Ungheria è fiera di essere membro con voi dell’Ue». Una professione di fede “eurorealista” da parte del leader della destra ungherese.

Prudenza anche da parte del ministro degli esteri finlandese Timo Soini, che pure è il co-fondatore e leader dei “Veri finlandesi”: «Il risultato va rispettato senza vendette. Ma resta il fatto che la Gran Bretagna è il secondo contribuente di Bruxelles, la seconda economia del continente e il più forte stato militare dell’Europa. Ora si tratta di negoziare per ottenere il miglior accordo possibile con Londra».

I democratici svedesi scavano già la trincea euroscettica. Il giovane leader Jimmie Akersson commenta: «Chiediamo immediatamente che Stoccolma rinegozi gli accordi. Il premier si occupi del bene della Svezia e non dell’Ue. E anche il nostro popolo abbia l’opportunità di poter dire la sua sull’appartenenza a questa Europa». Ben più decisi gli olandesi del PVV (Partito per la libertà) per bocca di Geert Wilders: «L’elite eurofila ha perso. È l’ora di un referendum Nexit. L’Europa è spaccata su come gestire la crisi dei migranti, ma anche sulle emergenze finanziarie di paesi come la Grecia».
Kristian Thulesen Dahl a nome del DF, “Partito del popolo” danese, oscilla fra l’elogio al «coraggio britannico» e la cautela. Piuttosto è EL, “Lista dell’Unità-I rosso-verdi” (che ha 14 deputati in Parlamento) a voler imitare

Londra, come spiega Soeren Soendergaard: «La Danimarca non ha mai avuto un referendum. È tempo anche per noi di averne uno» anche perché nell’ultimo sondaggio gli euroscettici sono cresciuti fino al 42%, ben 5 punti in più rispetto alla rilevazione di marzo.

Nel frattempo, in Germania i vertici della Spd corrono ai ripari. Un memorandum di 11 pagine con le firme del vice cancelliere Sigmar Gabriel e del presidente dell’Europarlamento Martin Schulz è stato pubblicato ieri. Una sorta di decalogo indispensabile a “rifondare” l’Europa: «Bisogna cambiare il patto di stabilità e combattere la disoccupazione giovanile, perché solo la prosperità economica e la giustizia sociale sono il fondamento di un’Unione forte, dentro e fuori i confini».

Da Monaco il presidente della Baviera Horst Seehofer, leader della Csu, tira l’ennesima bordata “indiretta” alla cancelliera Merkel. «La partecipazione in prima persona dei cittadini è il cuore della politica moderna», ricorda il capo dei cristiano-sociali a Der Spiegel. E fa sapere di volere estendere l’utilizzo del referendum a tutte le questioni chiave della Bundesrepublik: dalle modifiche costituzionali alla politica europea, fino all’emergenza migranti. Poco importa se l’esito delle consultazioni popolari non collima con i desiderata di chi governa: «Non si può dire che siamo favorevoli al referendum solo se l’esito va a nostro favore. Quando si perde significa che la politica non ha fatto un buon lavoro», è il messaggio di Seehofer. Non solo a David Cameron.