Delle ultime visite di Theresa May a Bruxelles, tutte abbastanza umilianti e inconcludenti, quella di giovedì sera è stata la più difficile. Completamente isolata e dopo aver fatto uno dei discorsi televisivi più scadenti e pericolosi dell’oratoria britannica di sempre, in cui ha cercato di mettere «popolo» contro parlamento, la premier era lì che questuava ai leader europei l’ormai inevitabile rinvio dell’articolo 50, lo stesso che fino a poco prima aveva categoricamente escluso come pericoloso e indesiderabile davanti ai suoi deputati.

Senza tale rinvio – non essendole già per due volte riuscito di far accettare al parlamento l’accordo di ritiro da lei negoziato con l’Ue – il Paese sarebbe precipitato nelle fauci del no deal fra esattamente sei giorni (anche se l’aula aveva votato contro: rischio ora meno probabile ma non ancora del tutto escludibile). Le resta dunque un’ultima, terza chance perché stavolta Westminster, finalmente, inghiotta lo stesso boccone già ri-sputato: magari grazie a una spolverata di zucchero (l’aggiustamento del backstop che accontenti Dup e oltranzisti euroscettici cui peraltro finora Bruxelles ha detto categoricamente no).

Per riproporre questo terzo voto, che avrà luogo forse martedì, May aveva chiesto un rinvio dell’uscita al 30 giugno, richiesta bellamente però ignorata dai ventisette. I quali, dopo una riunione notturna le hanno risposto con un diktat sotto forma di doppia alternativa: o rinvio fino al 22 maggio, nel caso martedì l’accordo passi (chances vicine allo zero virgola) in modo da dare il tempo di legiferare quanto necessario all’exit; oppure, in caso di terza, preannunciata sconfitta dell’accordo, solo fino al 12 aprile.

Sì perché sotto al coperchio della buona volontà europea ormai bolle l’insofferenza. Brexit fatigue, per usare l’espressione di Donald Tusk, in prossimità di elezioni che evocano l’incubo di manipoli razzial-sovranisti che bivaccano nel sordo e grigio parlamento europeo. In quel caso, entro il 12 aprile, il Regno Unito dovrà scegliere ancora una volta fra le dilazionate fauci del no deal oppure chiedere un’altra estensione, ottenibile però da Bruxelles solo se partecipa di nuovo alle elezioni europee, eventualità che May aborre per ovvi motivi, non ultimo che i succitati bivacchi troverebbero il proprio ducetto nel redivivo ghigno di Farage.

Nel caso, ripetiamo, assai probabile che l’ormai putrefatto accordo May sia dunque respinto per la terza volta, può succedere qualunque cosa. Dei voti cosiddetti «indicativi», in cui il parlamento le strappa il volante di mano e cerca di capire che strada prendere: Brexit morbida, secondo referendum, revoca completa dell’uscita; o magari elezioni anticipate, con un Corbyn primo ministro che gioca amabilmente a scopone con Michel Barnier su qualche aereo ufficiale. In tutto questo l’unica cosa certa è lo svuotamento politico della figura May, mera portatrice di una carica senza credibilità, fuori del suo partito come dentro, a Londra come a Bruxelles.

Intanto oggi c’è in programma la madre di tutte le manifestazioni pro secondo referendum, garantite centinaia di migliaia di persone tutte unite nel fervore della lotta, mentre una petizione per ottenere la rivincita al momento ha totalizzato oltre due milioni di adesioni.

Take back control, riprendere il controllo: così lo slogan della campagna del Leave inventato da uno dei tanti influenzatori a libro paga capaci di spostare il consenso nella democrazia digitalizzata, e alla cui efficacia si deve (solo in parte) la vittoria del leave al referendum. Difficile non ripensarci, di fronte al caos in cui fermentano partito conservatore, governo e parlamento britannici. Control? What control?