Il pragmatismo, concetto utilissimo quando si deve giustificare l’improvvisazione e il navigare a vista, è anche un brevetto della filosofia anglosassone. Non è dunque per caso che sia stato invocato – ed evocato – nell’atteso discorso sulla British Exit tenuto ieri da Theresa May presso la Mansion House di Londra davanti a una platea di dignitari europei, mentre fuori gli elementi stringevano in una morsa di ghiaccio la capitale e il paese tutto.

La premier ha anche parlato di realismo, merce che invece scarseggia nei banchi dei tories della destra euroscettica di cui è ostaggio. L’affermazione «Nessuno può avere sempre quel che vuole», ovvietà mutuata da Jagger/Richards, era diretta più a loro che alla controparte europea. Per il resto, un discorso dove la pars destruens era molto più definita di quella construens, anche se quest’ultima comincia ad avere una fisionomia.

Niente unione doganale, e men che mai Corte Europea di Giustizia, nel futuro dei rapporti fra la fuoruscita Gran Bretagna e il consesso europeo, anche se la corte lussemburghese continuerà a giudicare la validità degli accordi del Paese con l’Ue. All’accusa di Bruxelles di volere «botti piene e mogli ubriache», riferita al voler uscire dal mercato unico per poi sostanzialmente rientrarvi a piacimento, May ha risposto ammettendo implicitamente di volerlo fare, benché «in qualche modo il nostro accesso ai reciproci mercati sarà inferiore all’attuale». Ha concesso che Londra rimarrà «al passo» con la normativa europea in aree come gli aiuti umanitari e la competizione pur di accedere ai mercati. Ma una volta finito il biennio di transizione – con il Paese ancora nell’unione doganale in modo da attenuare il contraccolpo alle imprese e ai servizi – l’Ue dovrà accettare la stipulazione di un accordo di libero scambio ad hoc con Londra e non imporle quelli già vigenti con altri Paesi come il Canada o la Norvegia. Questo si articolerebbe attraverso proposte specifiche qui formulate per la prima volta. Tra queste, l’abbandono da parte delle banche della City del proprio «passaporto» commerciale, sostituito dall’autorizzazione di volta in volta da parte di ciascun paese membro, e una partecipazione alle agenzie continentali chimiche, farmaceutiche e del traffico aereo.

QUANTO ALLA SPINOSA questione del confine fisico irlandese, May ha ventilato una soluzione di tipo tecnologico o la creazione di una specifica partnership doganale pur di evitarne la reintroduzione.

Il discorso giunge all’indomani di una brusca levata di scudi della premier, che aveva considerato inaccettabile la bozza di accordo appena esposta dal capo negoziatore Ue Michel Barnier come lesiva dell’unità e della sovranità costituzionale del Regno Unito. «Nessun primo ministro britannico potrebbe mai accettarla», aveva tuonato a Westminster nella speranza di suonare abbastanza churchilliana da gettare un osso ai mastini euroscettici. Dal canto suo, Bruxelles non è esattamente gongolante. Se lo stesso Barnier ha reagito con cauta apertura al discorso, non altrettanto Verhofstadt, negoziatore per il Parlamento europeo, e tantomeno il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk che giovedì, in visita a Downing Street, aveva parlato di «frizione inevitabile» fra le parti.

JEREMY CORBYN, pronunciatosi in extremis a favore della permanenza nel mercato unico, ha puntualmente criticato senza mezzi termini il discorso, giudicandolo «privo di chiarezza e di un reale senso delle priorità».

L’impasse politico-economica che porta l’infelice nome di Brexit aveva raggiunto un punto particolarmente critico mercoledì, con la presentazione da parte di Barnier della bozza di accordo raggiunto il dicembre scorso fra il

Regno Unito e l’Unione Europea che considerava l’Irlanda del Nord come permanente nell’unione doganale al fine di evitare l’introduzione di un confine materiale fra le due Irlande, giacché con la British Exit queste diventano in buona sostanza il confine fra Europa e Gran Bretagna. Il fatto che siano state riavvicinate e pacificate dopo secoli di sanguinose contese grazie al Good Friday Agreement del 1998 fa disgraziatamente di quell’accordo un ostacolo alla separazione fra Uk e Ue. Il rischio dunque che con la sua cessazione rischino di tornare ancora una volta dei confini materiali che sono occorsi sanguinosi decenni per rimuovere è l’effetto collaterale più nefasto della tormentosa uscita.