Ancora ieri sera, «da remoto», fra il premier Boris Johnson, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, e il presidente del consiglio d’Europa Charles Michel continuavano gli sforzi per superare l’ennesima impasse Brexit.

SFORZI SU CUI PENDE la spada di Damocle di Johnson, che aveva abbondantemente minacciato di abbandonare il tavolo in caso di mancato accordo: un frangente verificatosi innumerevoli volte dall’inizio di quest’opera buffa, quattro – ormai lontanissimi – anni fa. Ma secondo un’indiscrezione di Bloomberg, ora i suoi consiglieri gli starebbero suggerendo di abbandonare il proprio ultimatum e di continuare la contrattazione, laddove gli europei segnalino di volerla continuare a loro volta. La scadenza sarebbe così spinta in avanti fino alla fine di ottobre/inizio novembre.

Si perché, sebbene surclassata e messa in ombra da una parola e da una cosa ancora più brutta – Covid -, Brexit is back, a reclamare a pieno titolo il proprio posto fra quelle che hanno reso questo Ventiventi l’anno horribilis che è. Mentre l’Europa tossisce lavandosi compulsivamente le mani, l’amputazione della Gran Bretagna dall’obeso corpaccione europeo deve fare il suo corso. Pace per la biosfera collassata, la morbilità globalizzata e l’economia anchilosata: vuoi metterle con il gingillarsi fra quote del pescato e la fine della libertà di movimento? E qui l’avvincente saga merita un piccolo riassunto.

IL PAESE NON È PIÙ UN MEMBRO del blocco dal primo febbraio 2020, ma è ancora in corso quel periodo di transizione di undici mesi che tiene in vita gli accordi, economici e non, di un tempo fino al prossimo 31 dicembre. Dopodiché sarà fuori dal Mercato unico e dall’Unione doganale. In questo frattempo bisognava rinegoziare il futuro assetto di detti rapporti in un nuovo accordo commerciale che entri in vigore dal 1° gennaio 2021. Obiettivo a dir poco risibile per un compito che di solito richiede degli anni. La scadenza per questa negoziazione, fissata da Boris Johnson, cade proprio oggi, primo giorno del summit europeo.

VA DA SÉ CHE NON SOLO un accordo non è stato ancora raggiunto: il clima è ulteriormente avvelenato per via di una legge promulgata a settembre dal parlamento britannico che trasgredisce l’articolo 5 dell’accordo di uscita – che prevedeva il permanere di controlli doganali su certe merci in transito fra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord pur di evitare il riaccendersi dell’endemica guerra civile lungo quel confine: giacché creerebbe di fatto una frontiera fra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord, Johnson ha impugnato l’articolo, beccandosi così l’anatema europeo sotto forma di azione legale.

Non solo. Ci si accapiglia, come al solito, tra calvi: nella fattispecie, per quei tre merluzzi rimasti nelle acque territoriali britanniche, nelle quali i pescatori francesi avrebbero diritto di accesso e di pesca secondo l’ancora per poco vigente normativa, e che i brexittieri sfegatati dietro a «Boris» vogliono proteggere a costo della vita (perché sugli ultimi bastoncini di pesce dell’Antropocene sventoli il libertario Union Jack, anziché il sanguinario tricolore francese). Che Emmanuel Macron si sia a sua volta impuntato sulla questione, a tutela sovranista delle esigenze dei gallici pescherecci, non aiuta.

ALTRO CONTENZIOSO sono gli aiuti statali alle industrie nazionali, sul quale Londra nicchia, attirandosi le accuse di non rispettare quell’elusiva e fantomatica equità (level playing field) su cui dovrebbe basarsi la concorrenza economica fra ex-compari. In effetti Johnson, che ha indossato la casacca del brexittiere solo per squattare a Downing Street, ha provato davanti allo specchio tante di quelle volte la parte dell’autarca da finire per crederci: vuole la massima indipendenza possibile quanto ad accordi commerciali, invoca inebriato quelli che l’Ue ha con il Canada o l’Australia, e aveva ripetutamente minacciato di gettarsi tra le braccia del Wto.

È a questo punto probabile che, in cambio di un mitigarsi di Bruxelles sui merluzzi contesi, Londra accetti di illuminare le proprie intenzioni quanto al sussidio statale alle imprese nazionali, in modo da non favorirle rispetto alla concorrenza europea. E che, nel nome del CoronaVirtus, si rischi addirittura l’accordo.