Anche se nella campagna elettorale britannica si è parlato poco di Brexit, il risultato del voto avrà forti conseguenze sui negoziati. Intanto, questi potranno iniziare il 19 giugno, come stabilito? Theresa May parla di «fronte unito» e si dice convinta di poter rispettare la data. Ma per negoziare con Bruxelles, Londra deve avere un governo. Deve nominare un negoziatore, deve definire i contorni dei contenuti che saranno difesi dai britannici. Siamo molto lontani dal «mandato forte e chiaro» che May avrebbe voluto.

Ieri, il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha messo in guardia: «Spero che non ci sia un ritardo supplementare per i negoziati», visto che i tempi si sono già dilatati, il referendum è di quasi un anno fa (23 giugno 2016) e l’articolo 50 è stato attivato il 23 marzo scorso. Il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, vuole credere che «il risultato delle elezioni britanniche non rimette in causa il calendario del negoziato», ma avverte che «non sarà senza impatto sullo spirito dei negoziati che si apriranno».

La procedura stabilita dall’articolo 50, per un’uscita «ordinata» dalla Ue, è molto vincolante: è prevista una durata di due anni di negoziato, che non può venire sospesa in attesa del nuovo governo. Per prolungare i tempi del negoziato ci vorrà una richiesta esplicita di Londra e un’accettazione all’unanimità dei 27. Michel Barnier, il negoziatore per la Ue, si è già lamentato della «negazione della realtà» che hanno mostrato finora i britannici, rimandando l’inizio del negoziato e vivendo di slogan elettorali sull’hard Brexit.

I 27 hanno però dato a Barnier un mandato preciso: Londra deve pagare per tutti i programmi in corso in cui la Gran Bretagna è impegnata (il calcolo è interno ai 60 miliardi di euro) e devono essere date garanzie per i 3 milioni di cittadini Ue residenti nel Regno unito (con una contropartita eguale per i britannici nella Ue).

Donald Tusk, presidente del Consiglio Ue, ha riassunto le preoccupazioni di Bruxelles: «Non sappiamo quando cominceranno i negoziati, ma sappiamo quando devono finire. Fate del vostro meglio per evitare un no deal dopo un non negoziato». In Francia, il primo ministro Edouard Philippe taglia corto: «Il risultato delle elezioni in Gran Bretagna non rimette in causa la scelta dei britannici di uscire dall’Unione europea». In Germania, il ministro degli Esteri, Sigmar Gabriel, è più sfumato e vuol credere a «un voto contro l’hard Brexit».

Per il commissario al bilancio, il tedesco Günther Öttinger, c’è «il pericolo che i negoziati siano cattivi per le due parti» a causa di un «potere debole». E aggiunge: «Abbiamo bisogno di un governo in grado di agire, nei prossimi giorni vedremo se la Gran Bretagna è in grado di cominciare il negoziato, perché senza governo non c’è nessun negoziato».

Per il liberale Guy Verhofstadt, «è ancora un autogol, dopo Cameron adesso May, renderà un negoziato complesso ancora più complicato».

A Bruxelles, come spiega il capogruppo dei Verdi Philippe Lamberts, temono che May, indebolita, si irrigidisca ancora di più e diventi «ostaggio dell’ala più estremista dei brexiters».

A Londra la situazione è confusa. Per l’ex ministro tory George Osborne «l’hard Brexit è finita nella pattumiera». Nicola Strurgeon, premier della Scozia, ha chiesto a May di «rinunciare» all’hard Brexit. Gli eventuali alleati del Dup nordirlandese (Democratic Unionist Party) difendono una soft Brexit, «senza strappi e senza frizioni» con l’Irlanda, per il mantenimento di un’area comune di circolazione delle persone e facilitazioni per il commercio (l’Irlanda del Nord ha votato al 56% per il Remain e Belfast teme che un’hard Brexit metta in pericolo gli accordi di pace del ’98).