Il risveglio è peggio dell’incubo. L’accordo di uscita targato Boris Johnson che finalmente anima il golem Brexit è stato votato ieri pomeriggio dal parlamento britannico con una maggioranza massiccia e definitiva di 124 voti (358 a 234). Da un parlamento tutto nuovo, epurato di remainer multipartisan sostituiti da un’armata di neodeputati conservatori che, espugnando le roccaforti ex rosse del nord, ha riscritto la storia sociale del paese.

La smisurata solidità del suo successo ha permesso a Johnson di purgare l’accordo dalle concessioni che aveva fatto in precedenza, quando guidava ancora un governo di minoranza, pur di ingraziarsi detti remainer. La prima a volare dalla finestra è stata naturalmente quella della tutela dei diritti dei lavoratori, seguita a ruota da un allargamento della giurisdizione britannica su sentenze della Corte di giustizia europea e dall’abbandono dell’impegno legale a prendersi cura di bambini rifugiati richiedenti asilo, sostituito da una vaga promessa. E poi dalla proibizione legale di estendere il periodo di transizione – quello nel quale Uk e Eu dovranno rinegoziare i reciproci assetti commerciali – oltre la scadenza del 31 dicembre 2020. Chiari segni di una Brexit very hard, indurita come si deve.

GLI 80 SEGGI DI MAGGIORANZA conquistati alle elezioni e il corrispettivo scempio labour (52 seggi persi) danno a Boris Johnson carta immacolata per i suoi scarabocchi. Quest’esecutivo intende restare for the long run, un decennio almeno: un paio di mandati che i tories sono convinti di poter infilare per cambiare i connotati al paese. Tutto era già visibile nel discorso della corona, enunciato ieri dalla monarca in pompa ridotta, senza il solito goiellame, nel segno della fretta e dello pseudo-ecumenismo sociale di cui il premier va riempendosi la bocca da subito dopo l’inebriante vittoria. Ma soprattutto perché ne aveva già letto uno appena un paio di mesi fa. L’ormai larvale resistenza di Jeremy Corbyn non ha potuto fare altro che ravvisare il ritorno del governo verso una Brexit «dura».

QUESTE ELEZIONI hanno messo il paese sulla via britannica al populismo, scambiando i serbatoi del consenso dei due partiti di maggioranza: allontanatisi dalla loro sociografia di riferimento, il piccolo medio grande capitale liberale, pur di sopravvivere alla loro estinzione anagrafica, i tories si sono reinventati come improbabili scudieri della working class del nord sottoccupata che loro stessi avevano reso boccheggiante, approfittando della latitanza cronica da quei territori di un partito laburista ormai liberal, cosmopolita, metropolitano, globalista, insomma progressista, per usare un termine quantomai non significante.
È una Gran Bretagna anno zero quella di Boris Johnson, animata da «invincibile fiducia» come ha detto nel suo discorso il premier e per ora lanciata a tutta velocità lontano da quel liberalismo secolare che aveva contribuito a codificare.

È TRAMONTATO definitivamente quel tanto mitizzato pragmatismo come genius loci di un paese che aveva sempre dimostrato di saper perseguire il proprio utile economico. It’s the ideology, stupid, per parafrasare l’ormai ossessivo adagio con, cui nei bei tempi andati pre-crisi, l’occidente sviluppato indicava nell’economia il principale termometro dell’elettorato: un’ideologia che fa della paura – dell’altro e del proprio declino – la cifra del consenso politico. Una paura che domina oltreoceano, in Italia e a Visegrad e che si aggrappa ai soliti mostri novecenteschi.

Questa stessa realtà economica, lontano dal Frankenstein e dagli alambicchi ideologici di Johnson e i suoi, naturalmente scorre come al solito. La piallatura del Labour ha portato otto delle industrie oggetto delle ipotizzate nazionalizzazioni a incrementare di sei miliardi il proprio valore azionario. Le azioni Bt (telecomunicazioni) sono salite del 7% e quelle di Centrica (gas e elettricità) dell’8,7%.