L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è un processo lento e doloroso che rischia di porre fine alla secolare unione di Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord. È il monito emerso dal Joint Ministerial Committee, l’incontro di lunedì fra il governo di Theresa May e il resto dei primi ministri dell’Unione a capo delle nazioni «devolute»: il premier scozzese Nicola Sturgeon, il primo ministro gallese Carwin Jones e la leader nordirlandese e il suo vice, rispettivamente Arlene Foster e Martin McGuinness.

I toni sono stati gelidi, soprattutto fra Sturgeon e May, visto anche il recente annuncio da parte della leader dello Scottish National Party di indire una consultazione per un secondo referendum sull’indipendenza dopo quello perduto nel 2014. Sturgeon, uscita visibilmente contrariata dalla serie di colloqui, non è andata per il sottile, definendoli «davvero deludenti». May ha continuato nel suo niet già opposto alla richiesta del suo stesso parlamento di avere voto in capitolo sulle trattative con Bruxelles. Per questioni di riservatezza negoziale, è meglio non rivelare dettagli fin quando la negoziazione non è del tutto compiuta, è il suo ragionamento. Che deliberatamente subordina la più elementare applicazione dell’istituto democratico a quella che considera «la negoziazione del miglior accordo per tutta la Gran Bretagna». La sua controproposta è il vago contentino dell’offerta ai leader delle tre nazioni di un «contatto diretto» con David Davis, uno dei tre ultrà del leave installati da May (gli altri due sono Boris Johnson e Liam Fox) a sovrintendere all’epocale passaggio.

Sturgeon lamenta quello che lamentano da più parti, compresi alcuni tories favorevoli al remain: questa presunta riservatezza maschererebbe la ben più grave mancanza di un piano in sé: «Dell’approccio del governo britannico al negoziato con l’Ue non ne so ora più di quanto ne sapessi prima di entrare alla riunione. Al momento ho l’impressione che una strategia di negoziazione non ci sia affatto».
Gli ha fatto eco il gallese Jones, che ha confermato l’impressione che il governo May si trinceri dietro la riservatezza perché in realtà non sa ancora bene che pesci pigliare nella complessissima vicenda. Più miti i leader nordirlandesi, nonostante anche Belfast abbia votato per il remain, che hanno parlato di «discussione interessante».

Sulla scia della robusta maggioranza di voti per il remain espressi da Edinburgo, Sturgeon ha fatto voto di difendere gli interessi e la volontà popolare scozzesi che si vedrebbero entrambi calpestati qualora il paese fosse trascinato fuori dal mercato unico, una prospettiva resa particolarmente probabile da una Brexit hard (fuori del mercato unico come dalla libera circolazione delle persone) così come finora May l’ha lasciata intravedere. Per questo aveva avanzato, in una lettera di concerto con Jones, la richiesta di un voto dei parlamenti devoluti sul pacchetto negoziale.
Non è uno scenario piacevole per la prima ministra britannica, pressata da tutte le parti nella gestione del momento più delicato della storia del paese dalla seconda guerra mondiale e che rischia di diventare quello che tempo fa si diceva dell’ormai politicamente dissolto David Cameron, ovvero che fosse il premier, da solo, ad aver distrutto due unioni. Benché Westminster sia costituzionalmente sovrano e possa ignorare le volontà degli altri tre parlamenti che compongono l’unione, Holyrood (Scozia), Cardiff Bay (Galles) e Stormont (Irlanda del Nord), il rischio di innescare un irreversibile processo centrifugo è davvero alto, come anche sottolineato dal think-tank Institute for Government. l. c.