Nel dibattito in aula seguito alla presentazione della famigerata bozza di accordo con l’Ue sulla British Exit, Jeremy Corbyn – ormai padrone indiscusso di quella pratica che Trotskij definiva il parliamentary cant, la (menzognera e ipocrita) retorica parlamentare – ha vigorosamente attaccato il governo May giurando che non voterà mai a favore di quella bozza di accordo, definendola abborracciata, inconcludente e soprattutto contro gli interessi del popolo britannico.

Un suo portavoce ha reiterato mercoledì la posizione ufficiale del partito «La nostra priorità è per un piano Labour alternativo diverso per Brexit, che metta il lavoro e gli standard di vita per primi».

I capigruppo istruiranno il voto ai primi di dicembre in questo senso, cercando di contenere la disobbedienza. Lungi dall’essere quel capolavoro machiavellico che solo un ingenuo potrebbe considerare, la linea del partito laburista di Jeremy Corbyn è da Bignami di tattica politica.

LA POSIZIONE UFFICIALE è che il paese debba uscire dall’Ue ma restare nel mercato unico e nell’unione doganale, cosa «impossibile» perché reimporrebbe la libertà di circolazione delle persone che è alla vera radice causale dell’Exit.

Si articola dunque nelle cosiddette «sei prove» definite dal ministro ombra per Brexit, il moderato Keir Starmer, prove che l’accordo finale deve poter superare: l’accordo deve assicurare un rapporto futuro con l’Ue «forte e collaborativo».

Dovrebbe portare «esattamente gli stessi benefici» di cui il paese godeva quando era ancora membro; dovrebbe difendere i diritti e le protezioni nel mercato del lavoro; proteggere la sicurezza nazionale e la capacità di affrontare il crimine transnazionale; e infine dovrebbe soddisfare tutte le regioni e nazioni del Regno Unito. Brexit è la faglia di S. Andrea che ha spaccato non solo i partiti, ma ogni gruppo sociale, comprese famiglie, coppie, una divisione cellulare che ricorda tristemente quella, storica, della sinistra radicale. Anche il partito laburista è diviso sulla questione, anche se non con il desiderio di morte alla base delle divisioni dei Tory sull’Europa.

CORBYN è storicamente euroscettico; come ogni vero socialista britannico vede nell’Ue l’operazione neoliberale che è, un’entità che non permette nazionalizzazioni di sorta ai paesi membri. Ma deve tenere unito il partito la cui fazione moderata post-blairiana, che ha più volte cercato invano di azzopparlo nella corsa alla leadership, cerca disperatamente rilancio attraverso la propria militanza a favore di un secondo referendum, a traino dei liberaldemocratici.

GLI SI RIMPROVERA, soprattutto in quell’esangue centro liberale che da troppo tempo – e inspiegabilmente – passa come sinistra, di non aver apertamente abbracciato la linea di un nuovo referendum.

Da mesi Corbyn e il cancelliere ombra McDonnell sono strattonati da commentatori e dai giornali centristi perché si schierino a favore di questo fantomatico secondo referendum. Ma ciò non sarà, per il presumibile futuro. Soprattutto davanti a un governo di minoranza e a un partito conservatore impegnati in una sanguinosa guerra civile che sta arrivando alle ultime battute.

L’attendismo è in questo caso ovvio: le elezioni anticipate potrebbero portare a un governo neosocialista capace di rinegoziare tutto. Una semplice non–azione di Laozi, grande maestro taoista per una volta sottratto all’uso criminoso che ne hanno fatto per decenni i lupi di Wall Street.

Per questo il voto parlamentare dove May finalmente cadrà o smetterà di vivacchiare definitivamente rimane, a questo punto, l’unico terreno di scontro.