La musica inglese ha per lungo tempo chiuso gli occhi di fronte al disagio sociale, abbandonando, con poche eccezioni, l’impegno politico diretto. Dopo l’attivismo contro il tatcherismo, l’arrivo di Blair e la sua presunta collocazione a sinistra hanno raffreddato parecchio la voglia di protesta e di opposizione verso le storture politiche e sociali. Un laconico e sconsolato Paul Weller a fronte del suo allontanamento da certe tematiche espresse all’epoca dei Jam e Style Council afferma: «Scriverei esattamente le stesse cose di trent’anni fa». Lui che fu protagonista dell’avventura con il Red Wedge, l’associazione di gruppi e cantanti (da Billy Bragg ai Madness, da Jimmy Somerville a Jerry Dammers e ai suoi stessi Style Council), che si oppose in tutti i modi alla politica tatcheriana, e appoggiò con concerti, donazioni, e iniziative di ogni tipo, lo sciopero dei minatori. Paradigma di una generazione che ha lottato, combattuto, uscendo sconfitta o comunque provata da una battaglia impari. E ha deciso di deporre le armi, pur se solo dialettiche. Forse è più (drammaticamente) preciso il leader dei Manic Street Preachers, James Dean Bradfield, che rappresenta senza mezze misure l’impotenza di un certo ambiente culturale e artistico di fronte a un quadro politico sempre più desolante, e appiattito nei contenuti e nelle aspirazioni: «Odierò sempre i Conservatori. L’unico problema è che ora odio anche i Laburisti».

RITORNO DI FIAMMA

Il referendum sulla Brexit, che avrebbe dovuto portare – dopo il «deal» raggiunto dal nuovo primo ministro britannico Boris Johnson -, il Regno Unito fuori dalla Ue il prossimo 31 ottobre ma che, al momento in cui andiamo in stampa, sembra aver subito l’ennesimo rinvio, e chissà, magari l’affossamento definitivo dell’infausto voto popolare del 2016 -, ha però contribuito a riaccendere la fiamma. Sono in molti ad avere rialzato la voce, ad avere rimesso mano alla propria produzione artistica e al proprio impegno, con il preciso intento di sensibilizzare il pubblico sugli effetti di una scelta politico-culturale anacronistica e reazionaria.

Curiosamente, tra i primi ad esprimere con forza e urgenza il proprio dissenso e la propria posizione un deluso Mick Jagger, nel singolo solista dell’aprile 2017 England Lost. Prevedibile invece la posizione di Billy Bragg, sarcastico commentatore politico attraverso la sua musica aspra e minimale, che attraverso l’esplicita Full English Brexit sferza l’ottusa visione dei sostenitori dell’uscita, pur concedendo ai «Leavers» l’attenuante di chi sente la propria cultura minacciata da un’ Europa omologante. La sua opinione è infatti più articolata e approfondita, e sottintende una visione «patriottica», più che nazionalista, di amore per il proprio paese, a prescindere da qualsiasi connotazione politica e partitica. Afferma infatti Bragg: «Io amo il mio paese e non voglio che continui a fare di queste figure sul palcoscenico mondiale. Fino a quando non ci sentiremo a nostro agio per quello che siamo, cioè inglesi, lasceremo sempre la via libera all’estrema destra».

Prendono posizione anche gli Sleaford Mods, band tra le più interessanti e innovative che la scena inglese abbia prodotto negli ultimi anni. Il loro slang punk-rap è crudo, ossessivo, irriverente, con testi che non si preoccupano di «fare prigionieri». La visione di Jason Williamson, voce del duo, nato nel Linconshire (dove la percentuale dei favorevoli all’uscita ha raggiunto quote superiori al 60%), esprime, probabilmente meglio di tante altre analisi, pur se nella stessa maniera, urgente e dissacrante, del loro fare musica, l’humus sociale e culturale che ha sostenuto una scelta politica così radicale: «Penso che molti elettori del Leave avessero un atteggiamento tipo “fanculo l’Europa”. Non hanno nessuna possibilità di andare in Spagna o Germania a lavorare, una cosa inimmaginabile per loro. È una mentalità di gente della working class che vive in piccole città, gente che non esce mai dalla sua zona, che vive una vita difficile. Questa idea di un mondo più piccolo e alla portata della globalizzazione, dell’Europa, per loro è semplicemente ”ma che cazzo è?”. È a un milione di miglia lontano da loro. Quindi, quando hai qualcuno, come Johnson o Farage, che ti porta al nazionalismo, all’essere patriottico, finisce con un semplice “Io amo l’Inghilterra”».

The Good, The Bad and The Queen rappresentano, probabilmente, la band che ha riservato maggiore spazio alla questione, dedicando infatti l’intero album Merrie Land proprio alla Brexit, senza mai però esplicitamente richiamarla nei testi. Damon Albarn, già voce dei Blur e protagonista di numerose iniziative a sfondo culturale, sociale e politico, affiancato da Paul Simonon, ex Clash, attivista per Greenpeace, nonché osservatore e commentatore lucido, puntualizza: «Volevamo realizzare un album che fosse uno specchio della nostra società, una specie di satira emotiva ed emozionante concepita come una triste e nostalgica lettera d’addio all’Europa». Sempre nelle parole di Albarn troviamo una chiave di lettura, oltre che obiettiva, rivelatrice e definitiva: «La Brexit è una ferita che non guarirà, ma che, anzi, è destinata a imputridire. Ponendo i sudditi della regina davanti all’aut-aut rappresentato dal referendum, davanti a una scelta rigidamente binaria, si è voluto distrarli dai veri problemi del paese, sociali e non solo. Chi ha votato per andarsene, si è illusoriamente sentito parte di una maggioranza tradita dal sistema, e ha intravisto in quella scelta l’unico modo per cambiare in modo radicale. La Brexit ha concentrato l’attenzione di un popolo non sul proprio paese, ma sull’Europa. Il risultato è evidente, ed è a discapito della democrazia, che in questo caso ha mostrato tutta la sua fallacia: perché se si pone la domanda sbagliata, può rivelarsi persino pericolosa. Sono sensibile al significato delle origini dell’Unione europea, è qualcosa che ci tengo a conservare. Abbiamo bisogno dell’Unione Europea.”.

Paul Simonon tratteggia una visione ancora più tangibile: «Mio nonno era un immigrato che lasciò il Belgio durante la prima guerra mondiale. Joe Strummer è nato in Turchia. Molti aspetti prioritari nei Clash non sarebbero mai esistiti se avessimo avuto lo stesso attuale atteggiamento di ridurre o impedire agli immigrati di entrare nel paese. Mi piace far parte dell’Europa. È una cosa geniale».

MENO SCONTATI

Meno scontati appaiono gli appelli di rockstar solitamente lontane dalla politica attiva, come Sting e Bono; e altrettanto sorprendente è il consenso alla Brexit da parte di Ringo Starr e Roger Daltrey degli Who (che definisce l’Ue una «fuckin mafia»); tristemente prevedibile invece che l’ex Smiths Morrissey abbia definito il risultato del referendum «meraviglioso», avendo già espresso favore e sostegno verso posizioni dell’estrema destra inglese: recentemente è apparso in televisione indossando la spilla del partito xenofobo For Britain.

Con un approccio evidentemente tecnico, il Dipartimento (governativo) per il Digitale, la Cultura, i Media e lo Sport (DCMS) ha anticipato, in un documento ufficiale, i possibili effetti di una «no deal Brexit» sull’industria musicale, prospettando per le band inglesi in tournée in Europa difficoltà organizzative legate alle prassi doganali (per il trasporto degli strumenti) e fiscali (tassazione cachet e merchandising), e la conseguente riduzione, sino al 40%, degli abituali introiti.

Non solo la musica, ma anche l’arte, specie quella più immediata – per linguaggi e tramiti espositivi – della street art, ha saputo esprimere il proprio dissenso: per primo Banksy, con il suo imponente murale realizzato a Dover, in cui ritrae un operaio che scalpella via dalla bandiera europea una delle dodici stelle dorate. L’immagine è stata cancellata dai proprietari dell’edificio, sul quale poi Banksy ha nuovamente ritratto l’operaio nell’atto di eliminare la stella, ma con la bandiera afflosciata a terra, consegnandoci una visione ancora più drammatica.

Caustico invito alla riflessione da Joe Sweeney e la sua installazione interattiva – una cabina telefonica sistemata su una spiaggia – intitolata 0044… leave a message for Europe; da Paintsmiths, con il murale che ritrae il bacio tra Trump e Boris Johnson; da Odeith, con il fumetto Goodbye Europe, rassegnato commiato affidato alla sarcastica espressione del popolare attore Benny Hill. Insomma, l’arte contro la Brexit, aspettando gli eventi.