Tirare la corda, sperando che non si spezzi. Le ultime ore del thriller Brexit lasciano tutti con il fiato sospeso. Ieri, nel tardo pomeriggio una nuova telefonata di 90 minuti tra la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, e il primo ministro britannico, Boris Johnson. Segue quella di sabato, dopo la sospensione dei negoziati, venerdì scorso, per trovare un accordo sulle relazioni future tra Ue e Gran Bretagna, conclusasi con un comunicato che ammette che persistono «differenze significative» tra le due parti. «Abbiamo concordato che non ci sono le condizioni per finalizzare un accordo a causa delle distanze significative sui tre punti critici: level playing field, pesca, e governance – hanno scritto i due leader -. Abbiamo chiesto ai capo negoziatori di preparare una panoramica sulle divergenze che restano da discutere di persona, a Bruxelles nei prossimi giorni».

Siamo all’undicesima ora o al minuto prima di mezzanotte, cioè il tempo stringe. Il 31 dicembre a mezzanotte, la Gran Bretagna esce dalla Ue. Senza accordo significa che tutte le relazioni commerciali, finanziarie e anche umane vanno sotto le regole della Wto, con tariffe doganale e quote, mentre per i cittadini europei la Gran Bretagna diventa paese terzo (e per i residenti che non hanno fatto tutte le pratiche burocratiche richieste ci saranno meno diritti).

Se ci sarà una bozza di accordo entro giovedì-venerdì, per il Consiglio europeo, Westminster potrebbe votare in fretta e il Parlamento europeo ha ancora tempo tra Natale e Capodanno (anche senza voto, potrebbe essere trovato un sistema per applicare l’accordo anticipatamente).

Ieri, il governo britannico ha fatto però sapere che rifiuta di prender in considerazione un prolungamento del negoziato nel 2021, se le discussioni di queste ore falliscono. «Posso escluderlo» ha detto un portavoce, che ha aggiunto: «Siamo pronti a negoziare fino a quando resta tempo disponibile». Per Londra «un accordo resta possibile», anche se «il tempo stringe». E i costi lievitano: è stato calcolato che per la Gran Bretagna, il costo di un no deal sarebbe intorno ai 44 miliardi di euro, che si andranno ad aggiungere al disastro economico causato dal Covid (il 47% dell’export britannico è verso la Ue, viceversa è l’8%).

L’Irlanda è estremamente preoccupata. Ieri, il ministro degli Esteri, Simon Coveney, ha ammesso che il negoziato è «bloccato» e che restano «ampie divergenze». Il primo ministro irlandese, Micheal Martin, si affida al suo «istinto»: «mi dice che siamo a 50-50, non penso che si possa essere troppo ottimisti». Michel Barnier, il negoziatore europeo, ha incontrato ieri mattina gli ambasciatori alla Ue dei 27 paesi membri: «Per ora non c’è accordo», ha riferito. Ci sarebbero dei «progressi» ma restano sempre gli stessi «blocchi»: la pesca, il rispetto delle regole di concorrenza da parte della Gran Bretagna e la governance su eventuali conflitti. I paesi Ue tengono la briglia corta a Barnier, attenti a che non oltrepassi le linee rosse poste dagli stati e faccia troppe concessioni a Londra (è sospettato di volere un accordo ad ogni costo, per legarvi il suo nome, visto che andrà in pensione a gennaio).

La Ue continua a ripetere di essere pronta a negoziare e a continuare a discutere. Per Bruxelles, la palla è nel campo britannico. Ma Londra ha deciso di giocare con il fuoco: nell’attesa del nuovo voto, ieri sera, alla Camera dei comuni sull’Internal Market Bill, un testo che era stato emendato dai Lord in un senso favorevole alla Ue – evitando di contraddire l’impegno preso da Londra con l’accordo di uscita – Bruxelles ha scoperto con preoccupazione il testo del Taxation Bill, che dovrebbe essere votato oggi. Anche questo contraddice parti del Withdrawal Agreement e per il Parlamento europeo è «una provocazione».