A un mese dall’apertura ufficiale, ieri a Bruxelles è partito il secondo round di negoziati sulla British Exit. Il Brexit secretary David Davis e il capo delle trattative per l’Ue, il francese Michael Barnier, si sono ritrovati faccia a faccia per la fase operativa reale dell’impervio negoziato.

L’INCONTRO finirà giovedì e per ora su una sola cosa si trovano tutti d’accordo: con la scadenza fissata dell’ora x tra nemmeno venti mesi, il tempo stringe. Sul tavolo le questioni più dirimenti, la punta dell’iceberg che sarà la trattativa nella sua interezza e che hanno finora evidenziato l’enorme distanza che separa le parti: i diritti dei cittadini europei che vivono in Gran Bretagna e di quelli britannici nei paesi dell’Ue, il connesso permanere transitorio del Regno unito sotto la giurisdizione della Corte di giustizia dell’Unione europea, il saldo pecuniario delle pendenze dell’ex Paese membro, i confini fra Irlanda del nord e Irlanda e l’abbandono dell’agenzia europea per il nucleare Euratom. Un negoziato già di per sé improbo, che s’impiglia nella guerra civile permanente fra Tories moderati ed euroscettici di cui Brexit è l’ambito frutto.

Tutte risentono della debolezza del governo May, ridotto a minoranza dopo il fiasco elettorale, e della guerra di potere tra i notabili del partito sulla permanenza di May stessa a 10 Downing Street. Sono differenze in cui l’ambizione politica personale si incrocia a sua volta con le rivalità fra remain e leave al referendum del giugno dell’anno scorso, tanto aspre da far preconizzare ad alcuni un nuovo leader già il prossimo autunno. Le fila dei candidati alla leadership si stanno riempendo: l’ultrà nazional-patriottico Boris Johnson è in prima fila, seguito dal ministro remainer delle finanze e preferito dalla City, Philip Hammond – già ai ferri corti con May -, e dallo stesso Davis.

A INDEBOLIRE ulteriormente May è il suo disaccordo con Davis sui diritti dei tre milioni di europei in Gran Bretagna e del milione di britannici in Europa: la premier ha finora rifiutato la garanzia unilaterale al mantenimento di tali diritti ai cittadini europei residenti in Uk ignorando Davis, che la esortava a fare il contrario. Ha preferito rilanciare con un’avara controproposta che ha irritato gli stessi suoi connazionali nel continente.

La cessazione della giurisdizione europea nei tribunali britannici è un altro punto di frizione. Il periodo di transizione invocato giorni fa da Hammond per evitare un improvviso e letale vuoto legislativo qualora ci sia una Brexit hard – con il paese fuori del mercato unico e dall’unione doganale – contraddice la posizione sovranista di May, che vuole «riprendere il controllo» del paese.

BRUXELLES teme che la frammentazione e il caos di Londra sulla linea da seguire faccia fallire il negoziato e che tutto finisca con la hard Brexit temuta da imprese, finanza e il 48% che aveva votato per rimanere. Ieri il clima dei lavori era riassunto dai rispettivi body language nel rituale momento davanti agli obiettivi della stampa: alla giovialità insicura di Davis faceva riscontro la severa provvisorietà di Barnier, che dei due sembra sempre quello che ha qualcosa di più urgente da fare. Ancora più rivelatrice la foto delle due commissioni una di fronte all’altra: i voluminosi plichi di documentazione del team europeo erano assenti da parte britannica, il che rinforza la tesi che vuole i delegati britannici dei bluffatori del tutto privi di una strategia competente che gli permetta di traghettare il paese in acque del tutto sconosciute. Su tanta incertezza si staglia il profilo di possibili, ulteriori elezioni politiche vinte dall’opposizione. Lo conferma l’incontro dei giorni scorsi fra Jeremy Corbyn e lo stesso Barnier: che fra pochi mesi a quel tavolo possa esserci una delegazione laburista non è più fantapolitica.