«Non c’è nessuna ragione di fingere che oggi sia una giornata felice, né a Bruxelles né a Londra». Così Donald Tusk, presidente del Consiglio Ue, ha accolto la lettera del governo britannico che attiva l’articolo 50, portata dall’ambasciatore inglese a Bruxelles Tim Barrow. Il 28 marzo 2019 la Gran Bretagna sarà definitivamente fuori dall’Unione europea. «Già ci mancate» ha detto Tusk ricordando che «per il momento non cambia nulla», fino a quando la Gran Bretagna non lascia «le leggi della Ue sono applicabili» al di là della Manica. I 27 si riuniranno il 29 aprile, per adottare gli «orientamenti» sul negoziato con Londra, che nei fatti entrerà nel vivo solo dopo la stagione elettorale nell’Europa continentale, aprile-maggio in Francia e settembre in Germania. Per i 27, «la priorità sarà minimizzare le incertezze provocate dalla decisione della Gran Bretagna per i nostri cittadini, le imprese e gli stati membri» e l’intenzione è «concentrarsi sugli elementi-chiave per un ritiro ordinato».

La prima questione sul tappeto è la sorte dei 5 milioni di cittadini, 3 milioni di europei che vivono in Gran Bretagna e 2 milioni di britannici che sono nei paesi della Ue: quali diritti? Quali prospettive? Quali certezze per loro?

Altra questione preliminare è saldare i conti: secondo i calcoli di Bruxelles, già contestati a Londra, la Gran Bretagna deve rispettare gli impegni in corso, 55-60 miliardi di euro da versare per i programmi in atto, dal budget pluriennale della Ue (votato fino al 2020) ai programmi di ricerca fino alle pensioni dei dipendenti britannici dell’Unione europea. E già su questi due punti – il destino dei cittadini espatriati e il saldo del budget – ci sono forti difficoltà. Gli europei «devono parlare con una sola voce» insiste Michel Barnier, mr. Brexit, il negoziatore della Ue, anche se tutti sanno che, quando si entrerà nel vivo dei negoziati, l’ipotesi di movimenti asimmetrici è molto probabile, perché gli interessi divergono tra i 27. In ballo ci sono questioni finanziarie, commerciali, le frontiere, la cooperazione di polizia e giustizia. In tutto, 700 settori su cui discutere (dall’Euratom fino ai diritti per le rotte aeree), 19mila leggi da trasferire dal diritto comunitario a quello nazionale.

Angela Merkel ha insistito ieri sulla necessità che ci sia un «negoziato equilibrato» nei prossimi 2 anni. «Non dimentichiamo che la Gran Bretagna resta un partner nella Nato e in Europa», ha sottolineato la cancelliera. Per François Hollande «sarà doloroso per i britannici» dal punto di vista economico, e «doloroso sentimentalmente» per gli europei. Hollande vuole vedere nella Brexit un’opportunità, per «obbligare la Ue ad andare più avanti, senza dubbio a diverse velocità». Hollande esclude che venga adottato un «sistema intermediario» in caso di difficoltà del negoziato. Ma, malgrado il «momento storico», le trattative potrebbero anche insabbiarsi e quindi durare più del previsto: la Ue non esclude a priori un accordo transitorio, che permetta di non bloccare gli scambi commerciali, senza però entrare nel dettaglio sulle barriere doganali con ogni paese Ue.

Il 44% dell’export britannico è verso i paesi Ue, dove Londra accumula 78 miliardi di euro di deficit. Due anni, ridotti in realtà a meno di un anno e mezzo per entrare nel merito (dopo le elezioni tedesche) è un periodo molto breve per dirimere tutti gli ostacoli. La Ue ha una quarantina di accordi commerciali con paesi terzi, che la Gran Bretagna dovrà rinegoziare da sola. La grossa difficoltà riguarda la finanza, con il rischio in caso di hard Brexit della perdita per la City del «passaporto finanziario» nella Ue, che permette di vendere sul continente i prodotti finanziari made in England (ieri c’è stato lo stop della Commissione alla fusione delle Borse di Londra e Francoforte).

Per i 27 è da evitare a ogni costo il rischio che, alla fine del negoziato, appaia più conveniente stare fuori che dentro. Le spinte centrifughe sono difatti forti nella Ue, dove in vari paesi le forze euro-scettiche guadagnano terreno.