Il lungo rapporto che Predrag Matvejevic ha avuto con il manifesto è una scia luminosa; dall’incontro con Rossana Rossanda, alle decine di interviste che ci ha rilasciato per tutti i suoi preziosi libri (Breviario mediterraneo, Mondo ex, Signori della guerra, Pane nostro, ecc.), ai suoi contributi diretti sul nostro giornale. È la cifra del suo stile di scrittura mirata ad una nuova cosmogonia per estendere i confini del mondo, fino a spezzarne i limiti ben oltre la memoria e i miti. Dentro un codice di leggerezza epifanica, come fosse per la prima volta, che apriva e apre spiragli alla legittimità della presa di parola, detta e scritta. Nonostante la disperata consapevolezza della sconfitta consumata. Fin dentro l’appropriazione nazionalistica e la devastazione etnica di una lingua e di una letteratura unitarie. Così leggero e luminoso lo abbiamo visto aggirarsi tra le rovine di Mostar nel suo ritorno dopo la guerra fratricida nel 1997, nonostante l’esilio e la condizione di asilante al quale era ridotto.

Testimone della rovina jugoslava, Predrag, nato a Mostar da padre russo di Odessa e da madre croata, insisteva infatti a definirsi jugoslavo. Non a caso. Quello del destino sanguinoso della Jugoslavia era , tra i tanti, il suo dolore forse più lancinante e non nascondibile. Scriveva sul manifesto, in un lungo reportage di ritorno da Sarajevo nell’aprile del 1995 che raggela per l’attualità di fronte all’odierna balcanizzazione dell’Europa: «La Jugoslavia, in ogni caso, meritava un destino migliore di quello che ci è toccato, verso il quale ci hanno spinto le passioni malefiche e le memorie vendicative. È difficile spiegare come la “catena socialista” si sia spezzata proprio nella maglia che – a dispetto di tutto – era di un’altra tempra, se non più solida di quelle che tenevano insieme i cosiddetti Paesi dell’Est, ai quali dal ’48 non consideravamo più di fare politicamente parte». E continuava: «Una delle questioni di cui più appassionatamente abbiamo discusso sotto il regime precedente era quella dei diritti delle nazioni e delle culture nazionali. Negare quei diritti sarebbe oggi altrettanto assurdo quanto lo era ieri. Le conseguenze di cui siamo testimoni ci spingono però a riesaminare alcune delle nostre concezioni. Alcuni spazi della cultura nazionale si trasformano facilmente in ideologia della nazione. Il circolo vizioso si perpetua. E il prezzo da pagare è troppo elevato».