La memoria mi sostiene: era un trafiletto su l’Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci. In due righe si diceva che nella Ddr, la Germania Est – lo lessi prima della caduta del Muro – gli orti privati, i piccoli appezzamenti urbani concessi ai cittadini, dentro gli abitati o appena fuori, essi soli, fornivano l’ottanta per cento degli ortaggi nel paese.

In fondo non è una notizia eclatante. In Argentina, prima dello sbarco delle multinazionali agro-industriali, era lo stesso: dentro ed immediatamente fuori dalle città, si estendeva una fitta rete di orti e di frutteti. So per avere fatto in tempo a vederli, e godere dei frutti, che nella ex Germania Est, esistevano lunghe strade provinciali tutte costeggiate da alberi da frutta: meli, ciliegi, peri, susini, assolutamente buonissimi (i frutti). Erano stati piantati apposta: per il viandante. Ricordo benissimo, subito dopo l’unificazione, una vasta campagna popolare contro le direttive del nuovo governo, volte a sradicare gli alberi da frutta su tutto il territorio della defunta Repubblica Democratica Tedesca per sostituirli con più prosaici tigli. Cito questi dati di questi tempi. Oggi si parla tantissimo di transition towns, città in transizione verso la sostenibilità. Oggi si tengono convegni importanti dovunque. Ci si dimentica che, come nella Ddr, come in Argentina, gli orti ci sono sempre stati. Nelle città di tutto il mondo.

Una Via agli Orti, a Milano il Verziere, si trova nelle toponomastiche di tutta Italia. Così come lo mostrano i nomi volgari di alcuni ortaggi, la lattuga romana, lo zucchino di Milano, la cipolla piatta di Como e così via, sono molte le città che hanno già conosciuto il periodo d’oro degli orti.

Per non dire degli orti di guerra. In piazza Duomo a Milano, davanti alla Cattedrale di San Paolo a Londra, nelle piazze principali di Mosca e di Leningrado, scalzati i sampietrini o il basolato, nelle foto d’epoca, si vedono benissimo spuntare splendidi cavoli. Erano orti nati dalla necessità di sopravvivere. L’orto, luogo ancora ibrido, non ben definito tra la città e la campagna vera e propria, ha accompagnato la storia dell’umanità.

Giardini pensili di Babilonia, le ziqqurat, i giardini greci e romani, le huertas andaluse del periodo arabo… L’hortus conclusus dei monaci in età medievale, un filo verde, mai interamente reciso, connette la storia delle città, del loro paesaggio, con i bisogni primari dei suoi abitanti. Dopo la burrascosa e mortifera calata di cemento del dopoguerra e il sacco delle città continuato negli anni Sessanta, finalmente, i comuni più avvertiti hanno preso sul serio – complice l’inquinamento e la crescita reale di una coscienza ecologista – la ridefinizione degli orti urbani.

E così, oggi, e siamo nei primi decenni degli anni duemila, assistiamo ad una rivitalizzante e rigogliosa febbre degli orti. Non c’è città che non veda nascere orti condivisi o orti sociali, sorti per iniziativa spontanea di comitati e anche per la concessione da parte dei comuni. Da Bolzano a Lampedusa, da Torino a Milano, Roma, Venezia, Bologna, sono centinaia gli orti che stanno rispuntando. Per iniziativa dei mai abbastanza compianti Gianfranco Zavalloni e Pia Pera, soprattutto, nacque l’idea della rete degli Orti di pace. Esiste un manifesto del quale l’incipit suona così: «Ogni orto, anche un orto di guerra, è sempre un orto di pace».

Effettivamente la rete convocò diversi convegni nazionali. Ebbi la fortuna di intervenire ad uno di essi, si trattava del V, il 14 marzo del 2009. C’erano oltre duecento convenuti, la sala, quella del Grta, Gruppo di Ricerca delle Tecnologie Appropriate, nel quale Daniele Zavalloni prosegue gli scopi sociali, traboccava. Il convegno prevedeva una quota di partecipazione, eppure tanti, per meri motivi di spazio, erano rimasti fuori. Fu un momento importante. C’erano orti didattici, io rappresentavo il mio, dell’Istituto Comprensivo nel quale lavoro, c’erano orti nelle carceri, negli istituti psichiatrici, c’erano orti nei conventi, c’era l’orto, o meglio una vera e propria fattoria con animali curati con l’omeopatia, all’isola di Gorgona. Tante voci, tante esperienze – anche negative – e ricordo bene un maestro parlare degli Ortogoti, ovvero dei vandali che avevano devastato il suo orto scolastico. Negative si fa per dire: l’orto, quando una comunità è determinata, si rinnova e non ci sono vandalismi che tengano.

Piuttosto, esattamente come nei Ragazzi della Via Paal di Ferenc Molnar, più che atti di danneggiamento gratuito, possono rivelarsi micidiali (la morte di un orto) i progetti speculativi dell’edilizia più rapace. Epica battaglia, bisogna ricordarla, quella negli anni sessanta a Berkeley, quando universitari e cittadini, compatti, si presero un parcheggio abbandonato nelle adiacenze del campus e, alla lettera, strapparono l’asfalto e misero a dimora alberi, fiori, frutta e verdura. Una repressione poliziesca senza precedenti, un ragazzo finì ammazzato, portò alla fine di «People’s Park». Per fortuna in questi anni, anche nelle città americane, New York, Detroit, Los Angeles, si moltiplicano i neighborough garden, giardini di prossimità. Alcuni sono nati per iniziativa del movimento Food not bombs. La carota stretta nel pugno chiuso ne è il simbolo.

Poi ci sono orti nati dalle iniziative militanti per distribuire buon cibo a chi più ne ha bisogno. Ovunque si cominci a fare un orto, pur con motivazioni le più disparate, dappertutto si riflette sul rapporto tra l’uomo e la terra. Si privilegiano le forme di pratica colturale più rispettose del suolo. Dagli orti sinergici agli orti biodinamici, i nuovi orti rispondono a domande che nella città, ma, direi, nella civiltà post-industriale nella quale viviamo, sono d’obbligo: cosa sappiamo delle stagioni? Cosa sappiamo dei cicli della natura? I bambini davvero credono che il latte o i pomodori nascano alle catene di montaggio, negli scaffali dei supermercati?

Fare l’orto costituisce un obiettivo intorno al quale i cittadini più consapevoli si ritrovano per riscoprire insieme valori di lavoro comune, di acquisire manualità dimenticate, di conoscere l’influenza del sole e della luna. Ho conosciuto e collaboro con molti orti sociali e condivisi e ciascuno ha dei caratteri di partecipazione, di democrazia, di desiderio di messa in comune di valori e saperi. Esistono anche, sporadiche, nelle città, esperienze di guerrilla gardening, ovvero di riappropriazione temporanea di aiuole in disuso, rimesse al verde con azioni più o meno clandestine. Gettare delle bombe di semi, fatte con argilla piena di sementi, nelle aiuole neglette, confidando in una germinazione spontanea. Un opuscolo tratto dal padiglione tedesco ad Expo, addirittura, spiegava come si procede nella realizzazione di queste seed-bombs, poi, con ironia tutta teutonica, involontaria, si spiegava di gettare le bombe di semi «negli spazi consentiti», ovvero il tradimento radicale dell’idea stessa di guerrilla gardening. Eppure, questo è un segno di come anche queste manifestazioni spontanee vengano tenute in considerazione da enti istituzionali.

Fare l’orto è certamente atto vitale. Fare l’orto è terapeutico, ed è dimostrato. Se Voltaire scriveva «il faut cultiver son jardin», noi dobbiamo leggerla anche alla lettera. Coltivazione del proprio giardino interiore e anche di un giardino vero. Le città ne hanno bisogno. Tutti noi ne abbiamo bisogno. Non è vero che «l’orto vuole l’uomo morto», se si impara a coltivare in condivisione si divide la fatica, si aumenta la soddisfazione.