Nel corso degli anni il cinema di David Lynch si è configurato (o, meglio, trasfigurato, rifratto per via di sdoppiamenti, sovrapposizioni fisionomiche, sfagli di materiale eidetico ecc.) come uno dei maggiori punti di riferimento, per quanto sfuggente, intangibile, per una critica gravitante intorno alle forme e alla loro origine piuttosto che ai contenuti: forme in quanto calcificazione (provvisoria, spettrale), inscrizione delle forze, delle tensioni intrinseche all’immagine stessa. È una teoria del cinema che al limite, al limite delle asserzioni più audaci e affascinanti, si dispiega come cosmogonia, indagine sulle fattezze, sulle evanescenze dell’immagine da cui dipende l’esserci delle cose: il mondo è nella misura del suo inscriversi, del suo impressionarsi in quanto immagine e dunque estetica. In questo senso si parla di «visibile» e non di «visto», di qualcosa colto, verificabile nel suo farsi piuttosto che nella sua forma conclusa (morta); e si parla di «vedente», di cinema che vede a sua volta, che guarda, ci restituisce lo sguardo traendoci, attirandoci inesorabilmente nel suo microcosmo, per forza di cose trasognato, poetico, spettrale.

È DA PREMESSE di questo tipo – immagini in fieri, senza necessariamente un approdo finale – che parte il libro di Ilaria Mainardi, Il racconto di un sogno. Ritorno a Twin Peaks (Les Flâneur Edizioni, pp. 72, € 14,00), dedicato a una delle apparizioni più stupefacenti di questo nuovo secolo, la terza stagione di quella che all’inizio degli anni Novanta fu la serie che segnò più profondamente l’immaginario collettivo. C’era in quelle due prime stagioni tutto un panorama conturbante edificato «a forza» di dettagli, pigmenti, presentimenti; la torbida essenza del desiderio essudata dagli scenari legnosi della cittadina posta al confine col Canada; una carnalità, la superficie occhiuta (strabismi di venere negli occhi di Shelly, Donna, Audrey) legata alla sessualità giovanile, alla femminilità in fiore, che franava e apriva voragini verso profondità ctonie, psicologiche, parapsicologiche, tornando poi alla superficie dell’immagine sotto forma di simboli.

A questo proposito Mainardi coordina efficacemente le definizioni di Gilbert Durand – il simbolo inteso come «l’epifania di un mistero»: non lo scioglimento dell’enigma ma al contrario la sua moltiplicazione all’infinito – e poi di Paul Ricoeur che individuava una tripartizione della metà visibile del simbolo (una parte cosmica, una onirica, una poetica) completata dall’altra metà, quella invisibile, fatta di segni totalmente «inadeguati» alla solida rappresentazione dell’assunto. In effetti con un’altra intuizione efficiente ai fini della teoria del cinema lynchiano Mainardi ne suggerisce la dimensione e la sostanza di galleggiamento che riguarda strettamente la terza stagione trasmessa da Showtime nel 2017: non o non più l’aria, magari la volatilità dei tratti, l’evanescenza delle sagome, ma l’acqua, la profondità dell’abisso. Certo: l’epigrafe richiamata dall’autrice, incisa sulla tomba di John Keats («qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua»), ma aggiungerei il titolo di un magnifico film di Vincent Gallo (Promises Written in Water) che vale come definizione non solo del cinema di Lynch ma del cinema in generale, con la sua natura transeunte, con il suo svolgersi affidato alla presenza, alla carnalità luminosa dei fantasmi: nomi, cioè promesse scritte sull’acqua. Da qui, da questi riflessi, strisce di luce serpeggianti in un qualche riquadro acqueo, compito del critico è trarne, inventarne inferenze, ipotesi, racconti.

E CE NE SONO di suggestivi in questo libro: tutta una numerologia, misticismi vari, variazioni di archetipi biblici, o, attingendo alle neuroscienze, l’individuazione della paura quale chiave d’accesso alla loggia nera, dovuta a scompensi di dopamina, proprio come negli stati maniacali, che portano alle ripetizioni e agli scatti di dizione dei personaggi che la popolano. Qualcosa come un «blastare», cacofonia, diarrea linguistica (Mainardi, nel suo antefatto sul rapporto tra immagine e «opinione pubblica» ricorre alla definizione di «Myside bias») che scorgi, evacuata dal ragazzo dalla scapigliatura artatamente scompigliata, spicciata stomachevole sui cosiddetti social, in quella loggia nera in cui vige il lambdacismo, la psicopatologia o, meglio, l’idiozia.