22 luglio del 1944, furono firmati gli accordi di Bretton Woods, dal nome della cittadina americana in cui si svolsero i negoziati. Il conflitto mondiale sarebbe durato ancora un anno, ma i paesi che si avviavano verso la vittoria già pensavano alla costruzione del nuovo ordine commerciale e finanziario mondiale (i paesi del blocco socialista, però, non ratificarono mai tali accordi). Si è detto più volte che il sistema uscito da quella Conferenza non fece che sancire la supremazia americana nei rapporti economici globali. Ed è vero. Il sistema dollaro-centrico faceva degli Usa il rubinetto della liquidità a livello mondiale. Il biglietto verde unica moneta convertibile in oro (35 dollari ad oncia), tutte le altre garantite dal biglietto verde e obbligate a sottostare ad una rigida disciplina di cambi fissi (d’altra parte, gli Usa possedevano i 2/3 delle riserve auree di tutti i paesi capitalisti). Prevalse la linea di Harry D. White, il capo delegazione statunitense, fu sconfitta l’idea di John M. Keynes di dare vita ad una «moneta comune universale» e ad una «banca di compensazione internazionale» indipendente per regolare i pagamenti tra i paesi e prevenire nuovi squilibri finanziari tra gli stessi. Ma Bretton Woods fu anche l’ultimo grande accordo monetario basato sull’ancoraggio della moneta ad un bene materiale. Ancoraggio che racchiudeva l’idea del «limite». Tanto oro, tanti soldi. Il suo scioglimento, nel 1971, spalancò le porte al «denaro legale», alla cui base non c’è più l’oro ma semplicemente la «fiducia». Perché l’euro e il dollaro sono accettati? Semplicemente perché sono le uniche monete riconosciute dallo Stato per pagare le tasse e nelle quali vengono accreditati gli stipendi. Una nuova era per la società monetaria: la moneta non ha più «valore intrinseco» ma deriva il suo valore dall’autorità che sovrintende alla sua emissione.

Prima considerazione: senza forzieri a garantirne la convertibilità, l’emissione di moneta può essere illimitata. Almeno in teoria. Siamo passati dai tempi in cui John Locke difendeva la coincidenza tra valore della moneta e valore del metallo nel quale la stessa era stata coniata alla possibilità per le banche centrali di creare dal nulla la quantità di valuta che desiderano. Una vera e propria rivoluzione. La seconda considerazione è che l’assenza di «limiti» alla creazione di moneta, se da un lato può giovare all’economia consentendo ai governi ed alle banche centrali di fronteggiare meglio le crisi (si pensi al quantitative easing) e di scongiurare effetti deflazionistici derivanti da una scarsa disponibilità di riserve auree, dall’altro può accentuare il rischio di instabilità finanziaria, soprattutto se alla stessa si accompagnano «decentralizzazione» del potere d’emissione (creazione di moneta attraverso il credito), deregolamentazione dei mercati finanziari, crescita della leva finanziaria (investimenti a debito), sviluppo di mercati creditizi paralleli e di «mercati ombra». D’altro canto, se è vero che il capitalismo è per sua natura instabile («Un sistema finanziario in cui l’instabilità finanziaria può derivare da cambiamenti relativamente piccoli o da una moltitudine di cause è fragile», affermava Hyman Minsky), altrettanto vero è che tale intrinseca instabilità può essere in qualche modo governata.

Le economie moderne sono di fatto economie monetarie. Il sistema si regge sulle relazioni finanziarie tra cittadini, imprese, banche e governi. E già questo è un problema. L’incertezza che sta alla base di queste relazioni è la causa primaria dei bruschi passaggi da fasi espansive a fasi recessive o addirittura depressive nell’economia capitalistica. Le bolle prima o poi sono destinate a scoppiare. Ma l’entità del danno dipende molto dal loro volume e dalla capacità del sistema di prevenirne ed assorbirne gli effetti. La fine di Bretton Woods «incentivò lo sviluppo del mercato finanziario internazionale privato», scrisse Marcello De Cecco. Non si trattò di un «contraccolpo» immediato, ma è innegabile che dalla seconda metà degli anni Settanta si verificò un cambio di passo della finanza rispetto all’economia produttiva e si consumò un «colpo di stato nei mercati creditizi», la creazione all’interno del mercato creditizio regolamentato di un sistema bancario «ombra» capace di erogare credito e creare denaro a fini speculativi «al di fuori del controllo governativo» e attraverso complesse operazioni di ingegneria finanziaria. Nei soli Stati Uniti, alla vigilia della crisi, lo stato patrimoniale di tale sistema ammontava a 25 mila miliardi di dollari, oltre il doppio di quello delle banche regolamentate. Per non parlare dei derivati. Il loro valore nozionale è stimato attualmente nell’ordine di 2,2 milioni di miliardi di euro, 33 volte il Pil mondiale. La prova di come le attività finanziare abbiano ormai largamente surclassato la cosiddetta economia reale.

Due domande finali. La prima: fu l’esaurirsi della spinta del capitalismo fordista-produttivista ad incoraggiare l’espansione dei consumi a debito e delle attività speculative sui mercati finanziari o questi due fenomeni trassero linfa vitale dal superamento del «limite» rappresentato dalle riserve auree nella creazione di denaro? Entrambe le cose. Ma senza la «liberazione» del denaro dal vincolo aureo la risposta del capitalismo alla crisi del modello keynesiano del primo dopoguerra sarebbe stata certamente diversa. La seconda: sarebbe auspicabile un ritorno al gold standard? No, basterebbe mettere ordine nel settore finanziario e ristabilire il primato della politica nel «governo» del denaro.