«Breton cammina a ritroso, voltando la schiena al mondo della tecnica per tornare alla magia, ovvero all’onnipotenza del desiderio». Quest’asserzione di Jean Starobinski è contenuta in Breton Lo sciamano della poesia (pp. 140, euro 17,00), che meritoriamente le Edizioni Medusa propongono, a cura e con diligente traduzione di Luana Salvarani. Si tratta di una serie di interventi di autori vari sul capostipite del surrealismo, estrapolata dall’omaggio che la «Nouvelle Revue Française» gli rese nel 1967, dopo la morte avvenuta l’anno precedente, in un numero speciale intitolato André Breton et le Mouvement Surréaliste. La curatrice ha scelto un florilegio di contributi significativi apparsi nella rivista (mancano quelli di Ribemont-Dessaignes, Blanchot, Guillen, Bigongiari e altri), optando per il tono variegato degli stessi che passano dal testo di carattere esegetico, incentrato sulla poetica di Breton (Bousquet, Jaccottet), alla testimonianza tout court, come nel caso dei Ricordi di Philippe Soupault, che forgiò a quattro mani con Breton quella sorta di protovangelo dell’écriture automatique intitolato Les Champs magnétiques (1920).
Nonostante difendesse a spada tratta l’approccio medianico alla creazione, di cui ricordiamo i «sonni ipnotici» praticati soprattutto dal poeta Robert Desnos e dal narratore René Crevel, Breton si avvalse perlopiù di una maniera di scrivere raziocinante, quasi cartesiana, come testimoniano alcuni dei suoi testi più dirompenti: si pensi ai due Manifesti, ma anche ai Vasi comunicanti, composti con il proposito di conciliare una filosofia materialista con assunti di taglio psicanalitico (in calce figurano alcune lettere di Freud a Breton), nell’utopico tentativo di «changer la vie», sulla falsariga dell’opera «sregolata» di Rimbaud. Risulta quanto mai pertinente quel che scrive Caillois, teso a mettere in luce, come attesta il titolo stesso del suo intervento, Divergenze e complicità: «Non sono sicuro che non sia stato così con la scrittura automatica, che Breton difese con un’ostinazione degna di miglior causa, ma che sembrava aver praticato ben poco, se si eccettua di mettere da parte gli esempi così elaborati e così poco convincenti che offre il Poisson soluble». E ancora: «André Breton professava che la mente era capace di omologare tutto (lo affermò nel corso di una conversazione), capacità che per me sarebbe catastrofica, se corrispondesse alla realtà. Secondo lui, era l’immagine impossibile, assolutamente irricevibile, che doveva e poteva provocare, sconcertando l’ascoltatore all’estremo, quello stupore radicale che lui non era lungi dal ritenere l’essenza stessa della poesia». Si consideri a tal riguardo, oltre alla tecnica degli accostamenti analogici casuali derivata dal ducassiano «incontro fortuito di una macchina da cucire e un ombrello su una tavola anatomica», il concetto di beauté convulsive, presentato nel libro più riuscito di Breton, Nadja (1928), dettagliato resoconto delle vicissitudini scaturite dall’abboccamento con la vagabonda Léone Ghislaine, raffigurante il prototipo di Mélusine, che finirà i suoi giorni in un ospedale psichiatrico (ricordiamo l’interesse di Breton per le dottrine di Charcot, pioniere della moderna neurologia: si vedano al riguardo le fotografie sull’isteria femminile accolte in un numero della «Révolution surréaliste»).
Di altro tenore risultano i testi di Octavio Paz e Julien Gracq che nutrirono un’indiscussa ammirazione nei confronti di Breton, nonostante non abbiano mai aderito espressamente al credo surrealista. A proposito del tirannico dogmatismo professato nell’ambito del movimento, che porterà alle numerose espulsioni di autorevoli esponenti dello stesso, spesso motivate da mancanza di trasporto nei confronti dell’orientamento ideologico manifestato da Breton (vedi, ad esempio, i casi di Artaud e Soupault, con la relativa pubblicazione del libello Au grand jour, nel 1927, seguito dalla risposta artaudiana À la grande nuit, stampata in forma anonima), Gracq parlerà di «dolore presto esasperato perché il sistema di idee aderisce qui così intimamente alla singolarità esemplare di un uomo, che le minime divergenze sono sentite naturalmente come aggressioni contro la sua integrità personale».
Tesi confutata da Masson: «Tabù, interdetti, espulsioni, alterchi, bastonate; nient’altro che obbedienza a una morale da club (equestre o giacobino) che implicava una forte dose di casuistica, permettendo riabilitazioni arbitrarie quanto le condanne». Starobinski sogna allora Breton «come un ghigliottinatore, come un esecutore delle imprese giacobine (le sue vittime erano teste forti) il cui patibolo si trasformava in teatro di ombre cinesi».
D’altronde è sintomatico che, delle figure storiche che diedero lustro al movimento, il solo Péret sia rimasto fondamentalmente fedele all’operato di Breton, a differenza di una lunga schiera di scrittori e artisti la cui opera venne polemicamente messa al bando, a cominciare da quella di Éluard e Aragon, rei di avere assunto un atteggiamento acritico nei confronti della deriva stalinista del PCF avversata da Breton. Non a caso, durante il soggiorno messicano del 1938, verrà stilato con Trockij il manifesto Per un’arte rivoluzionaria indipendente. Scrive Matta: «Vedeva chiaramente la porte des champs. In ognuno di noi percepiva la poesia ancora in germe. Con coloro a cui donava la sua amicizia diventava esigente in modo esasperante, intransigente e insaziabile. Si viveva sempre nel mirino del suo revolver». Il riferimento finale è duplice, ricollegandosi sia al Revolver à cheveux blancs del 1932 sia alla celebre dichiarazione, presente nel Second manifeste du Surréalisme, che recita: «L’azione surrealista più semplice consiste, rivoltella in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si può, tra la folla». Nonostante non l’abbia mai rinnegata, Breton presumibilmente si pentì di aver scritto tale boutade, in quanto non era possibile conciliare il contenuto implicito in essa con i propositi libertari sbandierati a più riprese, anche se bisogna considerare il retaggio dal quale nasce: il modello iconoclasta di Vaché, ereditato da Jarry, nonché quella sequela di meteore nere come Cravan, Rigaut, Roussel, i cui scritti sarebbero andati a costellare le pagine sulfuree dell’Anthologie de l’humour noir al pari di stelle fisse come i blasfemi Sade e Lautréamont.
Il libro ripercorre, attraverso varie sfaccettature (tra cui quelle, ridotte all’osso, di Queneau e Paulhan), aneddoti e opere di Breton, dai versi giovanili di Mont de piété (1919), concepiti all’insegna della lezione simbolista di Mallarmé e Valéry, fino ai saggi tellurici di L’art magique (1957), passando attraverso una serie infinita di tecniche (cadavres exquis, poèmes-object ecc.) e riviste: «La Révolution surréaliste», «Le Surréalisme au service de la révolution», «Minotaure», «VVV», «Medium», «Le Surréalisme, même», «Bief», «La Brèche».
Gli spunti interpretativi che offre il saggio di Butor, configurato come un collage, si basano su immagini archetipiche che ricorrono nell’opera bretoniana: dal castello tardogotico alla maschera di metallo immortalata da Man Ray, dalla donna-pesce alla donna-uccello, dalla mandragora raffigurante «Enea che porta suo padre» alla statuetta sanguinante in caucciù. Criptico sin dal titolo, Ettaedro Eliotropio, il contributo di Butor contiene qualche passaggio illuminante, come quando suggerisce che il bambino rimasto «in Breton trasformerà il suo rifiuto, deciderà poco a poco, lentamente e oscuramente (e qui c’è anche una punta di pericolo: sotterraneamente) di divenire padre a sua volta, dunque di entrare nel mondo dei genitori, solo modo di sfuggire ai suoi sortilegi, ma all’espressa condizione che esso sia trasformato, smascherato. È il passaggio dal primo al Secondo manifesto. Il servizio alla rivoluzione è la condizione stessa della sua paternità».