Paola Dècina Lombardi ha sempre dedicato una particolare attenzione a quella straordinaria corrente artistico-letteraria rispondente al nome di surrealismo. Oltre a versioni che riguardano le figure più rappresentative dei cosiddetti sonni ipnotici, ovverosia René Crevel e Robert Desnos, la studiosa ha pubblicato due contributi fondamentali per la conoscenza nel nostro paese di questo movimento come Surrealismo 1919-1969. Ribellione e immaginazione (2002) e La donna, la libertà, l’amore. Un’antologia del surrealismo (2008). Ora licenzia una sorta di biografia intellettuale di Breton a cinquant’anni dalla sua scomparsa, con il titolo L’oro del tempo contro la moneta dei tempi André Breton, piuttosto la vita (Castelvecchi, pp. 416, € 28,00), in cui richiama il valore alchemico attribuito dal capostipite del surrealismo al segno e alla parola in aperta contrapposizione con il concetto di profitto economico e perbenismo borghese.
Il libro ripercorre le vicende esistenziali di Breton, partendo dai sodalizi intellettuali della prima giovinezza, tra cui spicca quello con Paul Valéry, considerato un vero e proprio maître à penser, il cui classicismo di taglio cerebrale si rivelerà tuttavia, con il passare del tempo, molto distante rispetto ai canoni estetici e gnoseologici professati da Breton. In questo senso il vero mentore non poteva che essere Jacques Vaché, l’autore delle Lettres de guerre, che, sulla falsariga della patafisica di Jarry, adotterà degli atteggiamenti fortemente iconoclastici come quando, alla prima del dramma Les mamelles de Tirésias di Apollinaire, scandalizzerà il pubblico esibendo di fronte a tutti una rivoltella carica. Come non pensare allora alle boutades di Jarry, che si divertiva a sparare nei cortili e rispondeva con voce metallica alle madri preoccupate: qualora avesse colpito uno dei loro bambini, sarebbe stato disponibile a «farne degli altri»?; o allo stesso assunto di Breton, nel Secondo manifesto del surrealismo: «L’azione surrealista più semplice consiste, rivoltella in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si può, tra la folla»? Certo, si tratta di un umorismo allucinato di cui Breton stesso avrebbe fornito uno specimen nel 1940 pubblicando l’Anthologie de l’humour noir, ma che dà un’idea di quella particolare Weltanschauung che si era venuta a creare entre deux guerres, in cui le correnti più oltranziste dell’avanguardia ancora risentivano dell’influenza delle provocazioni futuriste e, soprattutto, dadaiste (Duchamp docet).
Breton diede vita a varie riviste, tra cui «La Révolution surréaliste» (undici numeri tra 1924 e 1929), in cui uscirono i testi più dirompenti del surrealismo come i due manifesti programmatici dello stesso Breton che si proponeva di scardinare i canoni stereotipati della rappresentazione artistica e letteraria attraverso una nuova concezione estetica, in parte legata alla scoperta dell’inconscio freudiano. È noto che una delle tecniche più importanti fu quella dell’écriture automatique che consisteva nel registrare, senza alcun tipo di sorveglianza psicologica, le immagini che di volta in volta affioravano dall’inconscio. Ben presto si distinsero in tale procedimento due personalità di rilievo come quelle di Desnos e Crevel che scrivevano i loro testi in stato medianico. Naturalmente un tale linguaggio influenzò anche gli artisti: si considerino, al riguardo, le composizioni automatiche di Masson o i disegni collettivi soprannominati cadavres exquis.
Numerosi furono i riferimenti da cui prese l’abbrivio Breton, tra i quali bisogna segnalare perlomeno la lezione di alcuni precursori come Sade, Rimbaud e Lautréamont. La teoria degli accostamenti analogici casuali rimanda espressamente all’autore misterioso dei Canti di Maldoror, il quale asseriva che «la poesia deve essere fatta da tutti, non da uno». In tale contesto vanno lette alcune sperimentazioni, non di rado sconfinanti in una dimensione provocatoriamente ludica del linguaggio, come quelle della stesura collettiva di un testo: si pensi, ad esempio, alla raccolta poetica Les champs magnétiques, uscita nel 1920 e composta da Breton e Soupault, universalmente considerata la prima opera surrealista. Non è un caso, d’altronde, che alcuni titoli basilari siano stati composti a quattro mani, come L’Immaculée conception di Breton e Éluard o, addirittura, a sei, come Ralentir travaux di Breton, Char e Éluard (entrambi i volumi furono pubblicati nel 1930).
Il libro della Dècina Lombardi ci accompagna lungo un itinerario artistico complesso e sfaccettato, cercando di dare un’immagine di Breton che sia il più possibile obiettiva rispetto alle schermaglie ideologiche che sono sconfinate in tentativi di carattere agiografico o nel rinnegamento più radicale (fu definito sarcasticamente «il papa del surrealismo» o Un cadavre, come recita un libello del 1930 che si rifà al documento collettivo eponimo contro il passatismo di Anatole France). L’intransigenza del fondatore del surrealismo aveva sconfessato progressivamente l’opera degli autori che gli erano stati a fianco, seppur in circostanze e in momenti storici differenti: Artaud e Soupault, rei di non aver aderito alla svolta engagée impressa al movimento; Aragon e Éluard che prenderanno una deriva «stalinista»; Salvador Dalí soprannominato, anagrammando il suo nome, «Avida Dollars» per l’attenzione spasmodica all’aspetto commerciale dei suoi lavori; De Chirico colpevole di essersi orientato verso modelli neoclassici; Desnos che si era «svenduto» al genere romanzesco.
Bisogna tuttavia riconoscere a Breton, come fa l’autrice, di aver vissuto una vita spesa all’insegna della rivolta e di essere stato coerente con le proprie scelte, rinnegando di pari passo nazismo e stalinismo in virtù di una concezione libertaria che trova in Les vases communicants (1932) una delle espressioni più emblematiche. Il proposito era quello di coniugare rivolta rimbaldiana e dettami del materialismo dialettico, accantonando ogni tipo di dogmatismo. Ricordiamo che nel 1935 gli sarà proibito di intervenire al congresso dell’Aer di Parigi, colpevole di aver schiaffeggiato il narratore russo Il’ja Erenburg, il quale aveva scritto: «I surrealisti prediligono Hegel, Marx e la Rivoluzione, ma non hanno nessuna intenzione di lavorare» e che, durante il soggiorno messicano del 1938, firmerà con Trockij il manifesto Per un’arte rivoluzionaria indipendente.
La Dècina Lombardi, oltre a offrire un ritratto biografico a tutto tondo di Breton, ne ripercorre le opere, da Mont de piété (1919) fino a L’art magique (’57), passando attraverso testi fondamentali come Les pas perdus (’24), L’amour fou (’37), Arcane 17 (’45), facendo riferimento a una serie infinita di riviste: «Le Surréalisme au service de la révolution», «Minotaure», «VVV», «Medium», «Le surréalisme, même», «Bief», «La Brèche». Ma il libro che forse meglio contrassegna la beauté convulsive bretoniana (e del surrealismo stesso) è Nadja (1928) che racconta le singolari vicissitudini derivate dall’incontro fortuito con la vagabonda Léone Ghislaine che finirà i suoi giorni in un ospedale psichiatrico (ricordiamo en passant l’interesse di Breton per le dottrine di Charcot, il padre della moderna neurologia: si vedano al riguardo le fotografie sull’isteria femminile inserite in un numero della «Révolution surréaliste»). Le prose di questa narrazione sui generis si avvalgono di varie illustrazioni (alcune di Man Ray) che creano una felice commistione tra parola e immagine, anticipando una tendenza che attecchirà in tempi non lontani (si pensi a certi libri di Sebald). Lo stesso Breton osservava all’inizio degli anni Cinquanta: «Non voglio farvi entrare nessuna vanità, ma è generalmente riconosciuto oggi che il surrealismo ha contribuito in gran parte a modellare la sensibilità moderna».