Per molti versi appaiono simili le storie che hanno interessato le Gallerie dell’Accademia di Venezia e la Pinacoteca di Brera di Milano. Queste risalgono a molti decenni fa e riguardano il percorso verso il Grande inteso come aumento della loro superficie espositiva. L’occasione di parlarne è data dall’apertura nel capoluogo lombardo di Palazzo Citterio e la pubblicazione del volume di Renata Codello, Venezia, La grande Accademia, Architettura e restauro (Electa, pp. 352, euro 70). Ciò che accomuna entrambi i musei è il tempo trascorso tra l’annuncio degli obiettivi e la fine dei lavori, sempre parziale mancando all’appello la sistemazione museografica. Non è, quindi, superfluo ricercare le ragioni del motivo per cui, dopo lunghi anni di restauri, si sono inaugurati ambienti vuoti che mostrano solo se stessi. Iniziamo dal museo milanese. Qui non siamo ancora giunti all’ultimo atto del «caso Palazzo Citterio», come l’ex soprintendente Caterina Bon Valsassina afferma nella pubblicazione Palazzo Citterio, verso la Grande Brera (Skira, pp. 120, euro 22), piuttosto al penultimo. La storia è quella triste di una dimora storica acquisita al patrimonio statale nel 1972 per volontà dell’allora soprintendente Franco Russoli per l’espansione della Pinacoteca.

Infilata di asle Palazzo Citterio

RUSSOLI INIZIÒ i lavori in conformità del progetto redatto da Giancarlo Ortelli, Edoardo Sianesi e Roberto Sambonet. Si fermò, però, poco dopo avere demolito (scala d’onore) e ricostruito nuovi volumi (vano interrato). Negli anni ’80, su iniziativa degli Amici di Brera, un nuovo progetto è affidato a James Stirling e Michael Wilford che rimediano alle scellerate scelte precedenti che avevano alterato irreparabilmente il palazzo. Negli anni ’90, la morte di Stirling insieme al contenzioso con i vicini determina il naufragio anche di questa iniziativa. La vera causa è nell’incapacità di mediazione delle autorità pubbliche, diffidenti verso le idee degli inglesi, tra queste la copertura del cortile e il collegamento con Brera attraverso l’Orto Botanico. Si arriva così al 2009 con Mario Bellini vincitore della gara indetta dalla Direzione regionale Mibact per la Grande Brera. Si sarebbe auspicato che fosse lui il progettista designato ma così non è accaduto. Fu stralciato un pezzo del masterplan belliniano e indetto un «appalto integrato».

IL PROGETTO di Amerigo Restucci è quello eseguito con un ribasso d’asta rilevante dalle imprese vincitrici della gara. In parte, ciò chiarisce la modestia di molte soluzioni progettuali che è ben altro dal «rispetto del criterio del ‘minimo intervento’», come ha scritto Giovanni Carbonara. Gli sbagli sono evidenti sia dal punto di vista funzionale sia da quello estetico e saranno visibili al momento dell’allestimento museografico. Il fatto singolare dell’intera storia resta l’occultamento del lavoro svolto dallo studio Bellini, di cui non si fa menzione nella ricostruzione delle vicende del palazzo settecentesco.

ARRIVIAMO ORA a Venezia, dove Tobia Scarpa nel 2005 è incaricato dell’ampliamento museale della Grande Accademia e che nel rispetto di un serio programma raddoppia la superficie espositiva (circa 12mila mq.) del Complesso della Carità, già dal XII secolo luogo di profonde modificazioni edilizie come Paola Modesti, con estrema cura storiografia, illustra nel volume di Renata Codello prima citato. Scarpa ha sapientemente riconfigurato lo spazio al piano terra lasciato libero nel 2004 dall’Accademia di belle arti. Anche questo, come quello milanese, attende dal 2013 un progetto museografico almeno da quando all’«affascinante palinsesto di edifici» si è aggiunto il nuovo intervento scarpiano. Con quest’ultimo si è certo completato l’itinerario espositivo iniziato dal padre Carlo alla fine degli anni ’40 e proseguito dieci anni dopo nelle sale dei maestri veneti e dei «Primitivi».
Purtroppo la Grande Brera come la Grande Accademia sono di là da venire nella loro completa funzionalità nonostante l’urgenza di migliorare la conservazione, tutela e fruizione delle opere d’arte che contengono. Le cause sono molteplici ma tra tutte la più grave è la permanente assenza di una seria politica di programmazione ministeriale, la vera opera indispensabile di là di tutti gli elogi autoreferenti e le effimere celebrazioni.