Cinquant’anni fa, esattamente il 20 marzo del 1964, moriva per collasso epatico al Meath Hospital di Dublino «un personaggio turbolento ma delizioso, un uomo di spirito e d’azione, un bevitore incurante, un denunziatore impavido di inganni e ostentazioni: insomma, il proprietario del cuore più grande che abbia battuto in Irlanda negli ultimi quarant’anni». Secondo queste malinconiche riflessioni di Flann O’Brien, quel cuore apparteneva al suo amico Brendan Behan, romanziere, drammaturgo, e uomo dall’esistenza decisamente turbolenta.

Al suo funerale, nel quartiere di Donnybrook, a sud della capitale, una folla infinita seguì la bara portata a spalla, tra gli altri, da Cathal Goulding, un marxista che fu per anni il comandante in capo dell’Ira. Ora Brendan riposa a nord di Dublino, nel cimitero di Glasnevin, sotto una pietra enorme con un grande foro in alto. L’unica iscrizione recita Breandán Ó Beacháin.

A quattordici anni, nel 1937, Behan si era affiliato ai Fianna Éireann, l’organizzazione giovanile dell’Ira. Dopo due anni si imbarcò, apparentemente senza obbedire ad ordini superiori, per una missione solitaria in terra inglese. Avrebbe desiderato far esplodere alcuni ordigni nel porto di Liverpool; e invece, per sfortuna o ingenuità, venne seguito sin dallo sbarco dalla polizia britannica, e arrestato prima ancora che riuscisse a disfare la valigia. Per via della minore età fu condannato a scontare la pena in un penitenziario minorile: il Borstal, istituzione che darà il nome e l’ambientazione al suo romanzo più riuscito, Il ragazzo del Borstal.

Tornato in libertà dopo circa due anni in piena seconda guerra mondiale, venne immediatamente deportato in Irlanda, con il divieto assoluto di mettere in futuro piede nel Regno Unito – un divieto che si curerà a più riprese di non rispettare, una volta abbandonate le armi e presa in mano la penna. Ma la solitudine della vita da detenuto ne segnò per sempre la personalità, come anche la parabola del suo destino, un destino che lo vedrà occupare, nei pochi anni di vita che gli resteranno, più di una cella solitaria e fredda.

Il regime carcerario britannico non poteva certo esser una passeggiata per un repubblicano irlandese. L’unico conforto, per Behan, si era rivelato la religione: «la Bibbia era una consolazione per chiunque si trovasse da solo in una cella gelida. Quella carta così leggera, con dentro un po’ di materasso, e se riuscivi a recuperare un fiammifero, era la fumata migliore che potessi mai augurarti».

Ufficialmente scomunicato dalle gerarchie ecclesiastiche come tutti i membri dell’Ira, Behan si definiva «comunista di giorno, e cattolico non appena fa buio». Subito dopo esser stato rimpatriato, attentò alla vita di due poliziotti irlandesi, facendo fuoco contro di loro con un revolver, durante la parata per il ventiseiesimo anniversario della Rivolta di Pasqua del 1916. Li mancò da poco più di dieci metri, e fu condannato a quattordici anni di reclusione. Il padre, Stephen, un imbianchino che aveva combattuto nella guerra d’Indipendenza, e poi anche nella guerra civile dalla parte dei repubblicani, commentò: «gli hanno dato un anno per ogni metro da cui li ha mancati». Ma neanche quest’ennesima condanna sarebbe servita ad abbattere il morale di colui che si auto-definiva «il soldato repubblicano più volte catturato della storia irlandese».

La politica, Behan, ce l’aveva nel sangue, e nel Dna famigliare. Oltre al padre, anche la madre, Kathleen, era una convinta socialista, e lo zio Peadar Kearney aveva persino scritto l’inno nazionale irlandese: The Soldier’s Song. Ma anche la musica e la letteratura erano di casa dai Behan. Si leggevano i classici ad alta voce, e li si alternava con canzoni tratte dall’infinito repertorio delle ballate popolari irlandesi.

Come scrittore fu precocissimo. I primi articoli, introvabili, risalgono all’età di nove anni. La madre ricorda che scriveva su qualunque pezzettino di carta gli capitasse tra le mani. Ma ebbe anche un’altra passione, anche questa precoce, quella per l’alcol. Fu la nonna, la signora English, ad abituarlo a bere quando era ancora in tenera età, stranamente convinta che un senso di disgusto avrebbe in lui provocato un allontanamento definitivo dal bere, una volta divenuto adulto.

In Confessioni di un ribelle irlandese, uno degli ultimi libri registrati al magnetofono prima di morire, Brendan racconta di una sera in cui stava tornando a casa in compagnia della nonna, quando un amico di quest’ultima venne incontro alla strana coppia e disse: «che bel bambino, signora, peccato che sia deforme». «Come si permette?», rispose la donna, «non è deforme, è soltanto ubriaco». Non poteva sapere, nonna English, che l’alcol sarebbe stato la rovina e la fine di Brendan Behan. Ma a lui, anche su questo piaceva scherzare: «bevo soltanto in due occasioni», diceva, «quando ho sete, e quando no».

Erano anni difficili, per via della miseria, della fame, e ovviamente, della sete. Erano tempi in cui «procurarsi abbastanza da mangiare era visto come un successo; ma ubriacarsi era una vittoria». Alle ristrettezze in tempo di Guerra seguì, negli anni cinquanta, l’affluenza economica data dalla notorietà. La sua carriera di scrittore e drammaturgo decollò, anche grazie a certe performance televisive, in cui amava presentarsi completamente ubriaco, togliersi le scarpe, dire parolacce e inanellare battute dissacranti e giudizi corrosivi sulla morale ipocrita di una borghesia che lui, fiero proletario, odiava con tutto il cuore.

Le sue commedie, L’impiccato di domani e L’ostaggio, sbancarono i botteghini dei più grandi teatri di Londra e New York, mentre le opere venivano tradotte in molte lingue. Negli ultimi anni di vita, Behan faceva la spola tra una patria che non lo amava troppo («L’Irlanda è un gran bel posto, da cui ricevere una cartolina»), la metropoli americana a cui dedicherà la sua ultima opera postuma (Brendan Behan’s New York), e un’Inghilterra in cui era ancora considerato persona non gradita.

Ogni tanto si recava anche in Francia e in Spagna, come quella volta in cui un addetto alla dogana spagnola gli chiese: «qual è il motivo della sua visita?», e lui rispose: «sono venuto per partecipare al funerale di Franco»; al che l’impiegato replicò: «ma il generalissimo è ancora in vita!». E Brendan fece: «Vorrà dire che aspetterò».

A qualche anno dalla morte, il fratellastro, Rory Furlong, una delle poche persone a cui Brendan indirizzava lettere con contenuto intimo e personale, pronunciò parole chiare su quale dovesse essere la sua eredità umana, politica e morale: «Conosco persone che si recavano da lui e gli dicevano: ’Non sappiamo come pagare la bolletta dell’elettricità’, e Brendan andava con loro agli uffici della compagnia elettrica a risolvere i debiti. E pagava anche gli affitti di un sacco di gente. Se il popolo d’Irlanda dovrà mai lasciarci un ricordo di Brendan Behan, saranno i poveri a scriverlo: la gente a cui comprava le scarpe, non quelli che lui chiamava gli intellettuali».

Prima di morire, per lo stato in cui versava il suo fegato, i medici gli proibirono di ingerire qualunque tipo di liquido. Allora Brendan chiese a una suora di bagnargli le labbra con un panno umido. Una volta che questa l’ebbe accontentato, lui, morente, le sussurrò: «Dio ti benedica, sorella: che tu possa dare alla luce un vescovo!».