Il 29 gennaio 1728 va in scena al Lincoln’s Inn Fields Theatre di Londra The beggar’s opera di John Gay, una ‘ballad opera’ dall’intreccio approssimativo, con brevi intermezzi musicali, riprese sconsiderate da Molière, storie di malaffare che irridono al perbenismo del dramma in musica all’italiana. Il successo è sorprendente e la trasgressione alle norme teatrali del tempo si consolida in scandali e sperimentazioni. Le repliche vengono interrotte dalla fuga di una attrice innamorata, mentre Hogarth, che immortala vari momenti della messa in scena, inizia a riflettere sulla teatralità della sua pittura proponendosi in The Analysis of Beauty di fare in modo che «fosse come il teatro e i miei personaggi fossero attori».

Una nuova avventura
Quando, due secoli dopo, Brecht accetta di scrivere un copione per il teatro Am Schiffbauerdamm di Berlino, la scelta cade sull’antico esperimento londinese. Gli piacciono i plagi, i montaggi, i poveracci, l’avanguardia, gli piace soprattutto un teatro radicalmente antiaristotelico. Decide così di trasformare quell’opera di delinquenti in una novecentesca epopea di miserabili e di collocarla in un universo vittoriano ricco di corruzione almeno quanto di modernità.

È l’inizio di una nuova avventura letteraria. Nel 1930 prova ad adattare il testo teatrale per un film con la regia di Pabst: «uno squallido pasticcio e una sfacciata contraffazione di quel testo teatrale di enorme successo» tuona nel processo contro la casa cinematografica, la Nero-Film, che aveva trasformato la sua graffiante denuncia in una deliziosa pochade. Ma il pubblico entusiasta poco si preoccupa dello sdegno di un autore moderatamente tradito.

Poi, nel 1934, in una situazione radicalmente mutata, l’esule converte quel capolavoro anarchico-erotico in un grottesco e raffinato romanzo didattico, il DreigroschenromanIl Romanzo da tre soldi, ora ripubblicato da L’orma con la ’classica’ traduzione einaudiana di Ruth Leiser e Franco Fortini (pp. 440 pagine, € 23,00).

Sebbene non rinunci al sapore dickensiano dei bassifondi londinesi, ai nomi dei personaggi e ad alcune situazioni, anche per sfruttare in tempi grami il successo weimariano, il romanzo poco riprende dall’originale. È un testo partigiano e maledettamente attuale in cui confluiscono le provocazioni della giovinezza e l’impegno politico della maturità: non scriverà – afferma Brecht in un saggio di quegli anni – «di cose grandi ed elevate» ma dei meccanismi elementari dello sfruttamento.

«Basta un po’ di luce perché si veda che all’origine delle catastrofi ci sono degli uomini! Infatti noi viviamo in un’epoca in cui il destino dell’uomo è l’uomo». È la prospettiva teorica di Der Detektivroman di Kracauer, discusso a lungo in quei mesi con Benjamin; non si illude Brecht che esista una ragione che tutto domina e controlla, capace di spiegare i delitti del suo tempo, cercherà semmai di farli venire «alla luce» senza puritanesimo e senza retorica tra le storie di quotidiana sopraffazione.

Detective senza onnipotenza, Brecht raccoglie così in un grande circo dell’orrore ladruncoli e assassini, banchieri e mercanti, donne interessate e biechi faccendieri per un affresco di quel capitalismo che nel nazismo aveva trovato un disponibile (e mostruoso) alleato. Accanto a loro i poveri, fragili, stanchi, inebetiti a volte con i loro piccoli desideri e qualche sogno stentato che non si realizzerà.

Sfruttati e sfruttatori sono coinvolti in una storia intricata e, a volte, frettolosa, ricca di figure alla Grosz, e di colpi di scena. Mackie ha nascosto il bastone con l’anima di ferro per diventare un capitalista: si dedica, come il suocero Peachum, allo sfruttamento della povertà gestendo miseri spacci che vendono a basso prezzo merce rubata. Per arricchirsi insieme ai suoi loschi sodali è disposto a tutto: porta alla rovina i suoi negozianti, uccide un socio che minaccia la buona riuscita degli affari, sposa Polly per interesse, vende al governo carcasse di navi da guerra che non possono reggere il mare. I marinai muoiono, una negoziante si suicida, i concorrenti vengono annientati, ma alla fine trionfa l’happy end della retorica e del denaro.

Ma a Brecht non può bastare. Alle tre conclusioni della epopea teatrale di Mackie Messer, condannato e poi salvato dai capricci del potere, sostituisce nel romanzo il contrasto tra due finali: quella dei ‘ricchi’ che, dopo il funerale delle vittime della loro cupidigia, vanno a brindare agli affari futuri e quella di un povero diavolo, Fewkoombey, invalido di guerra, mendicante di esemplare insuccesso, assassino controvoglia, che verrà giustiziato per un delitto non commesso.

Il senso dell’intrico
E Brecht, che aveva maltrattato la psicologia dei personaggi, celebrando il tramonto dell’eroe con una galleria di uomini smontabili come Galy Gay, vagamente bestiali, da Baal ad Andreas Kragler, o solo stregati dalle seduzioni del mondo come Mackie Messer, si concede il lusso della compassione per questo ‘eroe bastonato’ che avrebbe desiderato solo un po’ di benevolenza. Fewkoombey sogna di essere il presidente del tribunale che giudica le ingiustizie del mondo «perché nessuno può impedire di vincere a chi sogna»: tutti i personaggi sfilano davanti a lui mettendo a nudo la loro anima insieme alle strategie della sopraffazione con una parabola che illumina il senso di questo intricato romanzo e segna un inaspettato incontro con Kafka – il Kafka benjaminiano – a testimoniare quella alleanza che, negli anni di Weimar, aveva unito nella avanguardia tedeschi ed ebrei.