Massimo Bray ieri era a Carditello per visitare la reggia borbonica acquistata dal ministro per i Beni Culturali, finalmente restituita al patrimonio pubblico dopo decenni di spoliazioni. Ai giornalisti però interessava sapere la sua posizione sul caso San Carlo. Il lirico partenopeo al momento si trova senza cda per le dimissione di cinque membri su sei, l’unico rimasto è il presidente e sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, strenuo oppositore dell’adesione al fondo salva lirici voluto da Bray, all’interno della legge Valore cultura. Un boccone che adesso il Mibac potrebbe far ingoiare lo stesso a sindaco e lavoratori attraverso un commissario ad acta. Il ministro ha provato a sfuggire ai microfoni, alla fine se l’è cavata con «per il teatro San Carlo riusciremo a trovare tutte le forme necessarie a preservare un bene importante». Ieri su [Il Mattino Bray, circa l’ipotesi di commissariamento, aveva spiegato: «Devo prima capire se le dimissioni dei consiglieri dal cda sono irrevocabili».

Insomma l’adesione al fondo non può essere contestata ma si può trattare per rendere la medicina meno amara. Nel pomeriggio c’è stato un faccia a faccia tra De Magistris e il governatore Stefano Caldoro, tra i dimissionari. Ma al termine dell’incontro le posizioni sono rimaste distanti. Dal comune fanno sapere che i due si prenderanno qualche giorno per riflettere, aspettando i prossimi incontri con il governo (martedì) e con gli altri soci.

Lo strappo istituzionale resta netto ma si lavora per ricucire ed evitare il commissariamento. Per il sindaco resta da chiarire perché gli altri soci, invece di metterlo in minoranza e votare l’adesione, hanno scelto la via delle dimissioni aprendo le porte a un’ingerenza maggiore del ministero. Caldoro in mattinata ha continuato a insistere che entrare nel decreto era un obbligo, meglio farlo e poi aprire una contrattazione col governo.

I lavoratori del lirico erano già insorti a settembre. In vista del passaggio in aula del dl voluto da Bray avevano bloccato l’inaugurazione della stagione. Erano arrivati in teatro anche Luisa Bossa e Arturo Scotto, parlamentari rispettivamente del Pd e Sel, a spiegare che si sarebbero battuti per modificare il decreto ma alla camera l’iter finale è andato spedito ed è diventata legge quello che nelle stanze del ministero era stato deciso. La soprintendente Rosanna Purchia, i soci dimissionari e infine anche Bray ripetono che i sacrifici richiesti in cambio della liquidità immediata (circa 8 milioni più un anticipo di cassa) non avrebbero comportato necessariamente il taglio dell’integrativo e la riduzione fino al 50% del personale tecnico-amministrativo.

I lavoratori non ci stanno. I punti dolenti sono i capoversi C e G. Il primo spiega che l’integrativo (circa il 35% dello stipendio) va a cessare un mese dopo la sottoscrizione del piano di riequilibrio, necessario per avere accesso ai fondi. L’altro chiarisce che il personale da spostare verso l’Ales spa (ente in house del Mibact) deve essere calcolato sulla pianta organica effettiva al 31 dicembre 2012. Il piano deve contenere tutti i punti da A fino a G bis, eventualmente un piano preliminare potrà poi essere completato. «Non prendiamoci in giro – spiegano i lavoratori – qui lo stipendio medio va da 1.570 euro a un massimo di 2.000 euro. E le rassicurazioni sul taglio del personale non rassicurano nessuno. Soprattutto è un insulto che maestranze in grado di portare il melodramma nel mondo devono finire a staccare biglietti nei musei per l’Ales. Siamo 340, di cui 190 orchestrali, una trentina di amministrativi e il resto tecnici, meno di così chiudiamo».

Perché imporre questa cura per forza? «Per ripianare i buchi nel patrimonio c’è tempo fino al 2016, questo dice la legge. La mancia che ci vogliono dare non risolve il problema». E allora qual è la fretta? «La verità è che Milano, Torino, Venezia non sono entrati. Napoli ha una storia e uno spessore culturale altrettanto importanti se non superiori, con loro ci dobbiamo misurare. Se i conti non tornano è la dirigenza che ne deve rispondere».