Alle oltre 221mila vittime della pandemia in Brasile si dovranno con ogni probabilità aggiungere anche i nove bambini, tra uno e cinque anni di età, morti con i sintomi del Covid in due comunità yanomami dello stato amazzonico di Roraima. Una segnalazione inviata a Brasilia dal capo del Consiglio indigeno di salute locale Júnior Hekurari Yanomami, il quale ha riferito che vi sarebbero «almeno altri 25 bambini con gli stessi sintomi e in condizioni gravi», sollecitando l’invio di medici nella regione, dove i centri di salute sono chiusi da circa due mesi.

Del resto, nella più ampia tragedia della pandemia in Brasile, un capitolo a parte, il più scandaloso, riguarda proprio i popoli indigeni, tra i quali il tasso di contagio è 5 volte più alto rispetto a quello della popolazione non indigena: i dati dell’Articulação de Povos Indígenas do Brasil (Apib) parlano di 47mila contagi e 940 morti, di cui quasi un quarto nello stato di Amazonas, mentre nell’area yanomani il virus è avanzato in tre mesi del 250%.

Ma non si tratta solo di numeri, come sottolinea l’Apib nel suo rapporto «La nostra lotta è per la vita»: «Abbiamo perso i nostri anziani, i custodi della memoria dei nostri antenati, i guardiani della conoscenza, dei canti, delle preghiere, della nostra spiritualità. Leader che hanno dedicato la loro vita alla lotta in difesa del territorio e dell’esistenza fisica e culturale dei loro popoli. Una tragedia che non riguarda solo noi indigeni, ma tutta l’umanità».

Una tragedia, tuttavia, che sembra non toccare in alcun modo il governo brasiliano, di cui l’Apip denuncia l’ininterrotta catena di omissioni, rispetto alla loro protezione, e di azioni, rispetto al saccheggio delle loro terre. Fino alla decisione del governo di includere tra i gruppi prioritari per la vaccinazione solo gli indigeni delle comunità, quelli «aldeados», escludendo tutti coloro che vivono nei centri urbani, dove peraltro sono arrivati proprio a causa delle invasioni delle loro terre.

I popoli indigeni, tuttavia, non si arrendono, ricorrendo al potere giudiziario per difendere i propri diritti garantiti dalla Costituzione, predisponendo per conto proprio un piano di «emergenza indigena», creando barriere sanitarie per bloccare l’avanzata del virus, malgrado gli sforzi del governo per sabotarle. E dando vita a proteste come quella dei popoli terena e guarani kaiowá, che giovedì, di fronte alla sede del Distretto speciale di salute indigena del Mato Grosso di Sul, hanno denunciato, tra l’altro, mancanza di farmaci e licenziamenti di massa del personale medico impegnato ad assistere le comunità. «Non ci daremo per vinti – scrive l’Apib nel suo rapporto -, ma lotteremo instancabilmente per ricreare i nostri mondi devastati. Non rinunceremo a vivere».

E quanto siano determinati lo ha dimostrato anche l’iniziativa di due leader indigeni noti a livello internazionale, Almir Suruí e Raoni Metuktire, i quali hanno denunciato Bolsonaro alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità. Un caso che, secondo l’avvocato che li rappresenta, il francese William Bourdon, potrebbe anche contribuire al riconoscimento dell’ecocidio tra i crimini giudicati dal Tribunale dell’Aia. Perché, se «quelli per i quali Bolsonaro è accusato saranno probabilmente qualificati come crimini contro l’umanità», sono stati tuttavia «perpetrati in un contesto più ampio di crimine ambientale».

Non si tratta peraltro dell’unica denuncia depositata contro Bolsonaro alla Corte penale internazionale: altre 4 pesano sul capo del presidente, rispetto proprio alla gestione della pandemia e ai diritti dei popoli indigeni.