Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti, Kopenawa ha condiviso nel 1989, con la Ong Survival International, il Right Livelihood Award, il «Premio Nobel alternativo».

Francesca Casella, direttrice di Survival Italia, com’è nato il rapporto tra voi e Davi Kopenawa?

La lotta al fianco degli Yanomami risale addirittura a un anno prima della fondazione di Survival. Il futuro presidente di Survival Usa, Kenneth Taylor, collaborò nel 1968 alla proposta di creazione di un territorio yanomami, ignorata dal governo basiliano. Nel ’73, il regime militare cominciò a costruire la Perimetral Norte, una superstrada che penetrava in territorio yanomami: due comunità furono quasi spazzate via dalle malattie importate dagli operai, e gli yanomami della regione subirono un grave calo demografico. Nel ’79 abbiamo pubblicato il primo bollettino di azione per chiedere ai nostri sostenitori di sollecitare il Brasile a rispettare i diritti territoriali degli yanomami. Nel 1982 abbiamo presentato il caso alle Nazioni Unite, e per tutto il decennio a contrastare invasioni, violenze e progetti di riduzione e frazionamento del territorio. Il culmine della campagna lo abbiamo raggiunto nell’89, quando ci venne assegnato il Right Livelihood Award. Per dare visibilità internazionale alla tragedia yanomami, invitammo Davi Kopenawa in Inghilterra e in Svezia a ritirare il premio a nostro nome. Era la prima volta che un portavoce yanomami lasciava il Brasile, e il viaggio suscitò un enorme interesse nei media e nell’opinione pubblica, lanciando la campagna a livello mondiale. La terra yanomami è stata ufficialmente riconosciuta dal governo brasiliano nel ’92, alla vigilia del Summit della Terra delle Nazioni Unite a Rio. Una vittoria cruciale, raggiunta insieme alla Commissione Pro Yanomami, ONG fondata in Brasile dal missionario Carlo Zacquini insieme alla fotografa Claudia Andujar e a Bruce Albert. Davi ha più volte dichiarato che senza Survival, la sua terra non sarebbe mai stata demarcata, e forse il suo popolo non esisterebbe più.

Veniamo a Survival. Quando, dove e perché è nata.

La nostra fondazione risale al 1969, dopo la pubblicazione sul Sunday Times di un articolo di Norman Lewis. Si intitolava Genocide, e denunciava lo sterminio di migliaia di indios brasiliani per mano di coloni, taglialegna e allevatori, spesso con la connivenza delle autorità. Il fenomeno – che includeva stermini di massa, torture e guerre batteriologiche, casi di schiavitù e abusi sessuali – era talmente diffuso da far pensare che entro la fine del secolo nessun indigeno sarebbe sopravvissuto. Da allora abbiamo continuato a crescere e a espandere il nostro raggio d’azione per aiutare il maggior numero possibile di popoli minacciati e difendere il loro diritto a decidere del proprio futuro. Il tutto in modo apartitico e aconfessionale.

Come si svolge il vostro lavoro?
Da quando il primo pugno di volontari iniziò a lavorare, la situazione è molto cambiata. In tanti hanno cominciato a riconoscere l’inalienabilità dei diritti dei popoli indigeni e il valore delle loro culture. Resta però moltissimo da fare. Gli indios continuano a essere vittime di razzismo, furti di terra, sviluppo forzato e violenze. Per prevenire lo sterminio, offriamo loro un palcoscenico da cui rivolgersi al mondo, paghiamo i viaggi e mettiamo a disposizione tecnologie di comunicazione che consentono di denunciare in tempo reale quel che accade. Indaghiamo sulle atrocità visitando i territori per fornire prove alle Nazioni Unite e ad altri organismi internazionali. Diamo assistenza legale, facciamo educazione nei paesi industrializzati, lanciamo campagne, esercitiamo pressioni e organizziamo proteste.

Sostenere Survival…

Il futuro dei popoli indigeni è nelle mani di ognuno di noi. Dobbiamo ottenere il rispetto della legge e la protezione delle loro terre. Sul nostro sito survival.it è possibile partecipare alle campagne con email, lettere e il tam tam dei social. Serve anche il sostegno economico. Per garantire forza, indipendenza e integrità alla nostra voce, rifiutiamo contributi dai governi. La raccolta di fondi è molto difficile, perché l’impatto del nostro lavoro non si misura in mattoni, medicine o alimenti. Eppure non potrebbe essere più concreto, efficace e urgente.