I documentari sono entrati di diritto nei festival, talvolta ramazzando premi. E spesso siamo in un territorio di confine, dove il documentario si incrocia con la fiction. O Futebol di Sergio Oksman si inserisce perfettamente in questa edizione che sembra avere quale fil rouge il rapporto tra figli (uomini e donne fatti) e genitori prossimi alla dipartita. Come detto siamo nell’ambito della docufiction ma, per dirla con Chantal Akerman, un’altra regista che ha presentato in concorso una storia che ha punti di contatto con questa, No Home Movie, non siamo al filmino famigliare.

Sergio da molto tempo vive e lavora in Spagna, a Madrid, ma è brasiliano di San Paolo dove vive suo padre Simão. I due non si vedevano da ormai venti anni. Si sono ritrovati brevemente nel 2013 e hanno deciso di girare un film insieme l’anno successivo. L’occasione pretesto viene dal campionato mondiale di calcio che si è tenuto in Brasile nel 2014. Un modo per riallacciare il rapporto, come quando Sergio bambino andava allo stadio a vedere le partite del Palmeiras con papà, un intero mese da trascorrere insieme, scandito dal calendario mondiale. Quindi scelta dei luoghi, delle inquadrature, delle situazioni (non pensate alla banalità di due persone che assistono a una partita).

Ecco quindi i nostri al bar tra persone reali, fuori dallo stadio dove si sta giocando e arrivano i riflessi sonori del match. Tutto calcolato, tutto studiato, tranne la realtà che irrompe.

Ecco infatti che Simão ha un attacco di cuore. Questo ovviamente sposta tutto. Il grande avvenimento mediatico seguito in tutto il mondo, lascia il campo alle tragedie private, individuali che non fanno notizia ma lasciano il segno in chi li sta subendo. Poi, sullo sfondo, c’è la disfatta, quel massacro calcistico subito dalla nazionale brasiliana in casa propria per opera della nazionale tedesca. Un 7 a 1 che rimarrà indelebile per tutti i brasiliani.

Oksman ha sempre privilegiato il rapporto tra fiction e documentario. I suoi due corti precedenti sono stati Apuntes sobra el otro con un personaggio che avrebbe voluto essere Ernest Hemingway, cui si contrappone la fascinazione dello scrittore per essere qualcun altro. E ancora A story for the Modlins l’incredibile vicenda di Elmer Modlin, caratterista statunitense, che dopo essere apparso, neppure accreditato, nella scena del rito satanico di Rosemary’s Baby, si trasferisce a Madrid con la moglie Margaret, pittrice surrealista e ossessiva, e il figlio Nelson.

In un breve volgere di tempo moriranno tutti e tre a cavallo del 2000. E Oksman ne ha ricostruito la storia a partire dalle foto e dagli oggetti gettati dopo la loro morte e ritrovati nella spazzatura da un fotografo. Inutile dire che si tratta di lavori pluripremiati.

In concorso è stato presentato anche il tostissimo film israeliano Tikkun di Avishai Sivan che racconta in bianco e nero con ritmi dilatati e progressiva inquietudine, di una famiglia di ebrei ortodossi con il giovane figlio che perde tragicamente la fede e scopre in un cadavere «l’origine della vita», letteralmente come l’aveva dipinta Courbet. Cinema israeliano che vive un momento davvero tormentato.
Spesso oggetto di boicottaggio per quanto compie il governo del paese, ora deve anche fare i conti con Miri Regev, il nuovo ministro della cultura che ha dichiarato con forza come il suo governo non abbia più alcuna intenzione di finanziare film che «diffamino Israele o l’immagine dello stato di Israele o l’esercito israeliano» etc. etc.

Solo il cinema di regime, meglio se commedie vacue, potranno trovare ascolto. Tempi grami per i registi israeliani non allineati con un governo sempre più aggressivo, violento e antidemocratico.