Un anno di governo Bolsonaro ha mostrato quanto fossero fondate le preoccupazioni che erano state espresse al momento del suo insediamento.
Il carattere antipopolare delle misure varate, la violazione sistematica dei diritti umani, l’assalto alle risorse naturali, fanno dire che Bolsonaro sta mantenendo ampiamente le promesse fatte in campagna elettorale. Un anno nero per il Brasile e per il pianeta.

Perché, se la prima misura varata dall’ex capitano aveva riguardato il taglio del salario minimo a milioni di lavoratori, l’ultimo atto si è compiuto a metà dicembre alla Conferenza sul clima di Madrid. Nella capitale spagnola il presidente brasiliano si è posto alla testa di quella «coalizione fossile» che non vuole fissare regole per una «cooperazione climatica» e l’Amazzonia è stata utilizzata come arma di ricatto nei confronti degli organismi internazionali e dei paesi che perseguono gli obiettivi fissati dagli accordi di Parigi.

IL RUOLO CHE BOLSONARO gioca sul piano internazionale, pur con tutto il discredito che lo circonda, è favorito dalla stretta alleanza con Trump con cui condivide una visione ultraliberista condita di sovranismo in campo economico e una posizione negazionista in campo ambientale.

Sul piano interno le politiche economiche, sociali e ambientali perseguite Bolsonaro stanno producendo effetti disastrosi su vasti strati della popolazione brasiliana. Le disuguaglianze sociali si sono approfondite come conseguenza della riduzione dei sussidi destinati ai più poveri.

Il programma Bolsa Familia, creato nel 2004 dal primo governo Lula e che sostiene i nuclei familiari in condizione di povertà, ha subito tagli che hanno portato a una riduzione del numero di famiglie (circa 600 mila) che ne possono usufruire. Il programma abitativo Minha Casa ha visto un dimezzamento dei contributi erogati, toccando il minimo storico. Altri programmi come il Fies, che favorisce l’accesso all’istruzione superiore della popolazione a basso reddito, e l’Abono salarial, una specie di 14° salario per lavoratori dipendenti a basso reddito, hanno subito drastici tagli.

LA RIFORMA PREVIDENZIALE varata dal governo Bolsonaro, che innalza i requisiti pensionistici e aumenta i contributi a carico dei lavoratori, va ad aggiungersi alla riforma del lavoro varata dal governo Temer.

Le due riforme operano in modo congiunto nel determinare gravi fenomeni di precarizzazione in ambito lavorativo e insicurezza sul piano previdenziale, in un paese in cui il 60% dei lavoratori svolge un lavoro informale, con attività lavorative senza diritti e tutele.

Secondo uno studio della Fondazione Getulio Vargas, nel 2019 si è registrata tra i brasiliani la più alta disuguaglianza di reddito degli ultimi 10 anni. L’indice Gini, indicatore usato per misurare le disuguaglianze, ha toccato quest’anno il valore di 0,627, uno dei più alti al mondo.

L’indice, che era progressivamente diminuito a partire dal 2005, ha ricominciato a risalire dopo il 2015, toccando quest’anno un livello particolarmente elevato. Le politiche antipopolari di Bolsonaro hanno avuto effetto immediato, ampliando il divario tra la parte più ricca del paese e il resto della popolazione.

SONO I GRUPPI INDUSTRIALI, finanziari e agrari a raccogliere i frutti delle politiche liberiste e dei tagli a istruzione, previdenza, sanità e festeggiano facendo impennare gli indici della borsa brasiliana. Intanto tutti i progetti legati alla riforma agraria sono interrotti e i 23 milioni di lavoratori rurali, piccoli agricoltori e senza terra devono fare i conti con fazendeiros sempre più aggressivi, autorizzati dalle nuove norme volute da Bolsonaro a usare le armi per difendere i latifondi dalle «invasioni».

Così come è paralizzata l’attività di demarcazione delle terre indigene. Se il governo Temer nel 2018 aveva effettuato una sola demarcazione, Bolsonaro è fermo a zero demarcazioni, non avendo avallato alcune delle 500 richieste attualmente in corso. Per questo, invasioni, attacchi alle comunità indigene, incendi, sono all’ordine del giorno.

I DATI DEL 2019 indicano un sensibile aumento di tutte le attività illegali nei confronti dei territori e delle popolazioni.

La Commissione pastorale della Terra indica che il numero di indigeni assassinati nel 2019 è il più alto degli ultimi 11 anni. Sonia Guajajara, coordinatrice dell’Apib (Articolazione dei popoli indigeni del Brasile), dopo gli assassini di queste settimane dei rappresentanti indigeni nello Stato del Maranhao, così descrive la situazione: «Siamo in un campo di battaglia e sono forze politiche conservatrici, autoritarie e razziste a disseminare l’odio, con un governo fascista che sta superando ogni limite». A fine novembre un gruppo di giuristi brasiliani ha presentato al Tribunale penale internazionale dell’Aia una denuncia contro Bolsonaro per istigazione al genocidio degli indigeni brasiliani.

LA DENUNCIA È ACCOMPAGNATA da una vasta documentazione sullo smantellamento degli organismi di controllo, l’omesso intervento di fronte ai crimini ambientali, l’attacco ai difensori dei diritti sociali e ambientali.

Intanto, in nome della lotta alla criminalità, la polizia opera in forma sempre più estesa e violenta nei quartieri poveri e degradati dei centri urbani. Sono state 1.250 le persone uccise durante operazioni di polizia dall’inizio di quest’anno e sono i giovani neri a pagare il prezzo più alto. Il governo Bolsonaro teme che le forti tensioni sociali che si sono manifestate in Cile, Bolivia e Colombia possano propagarsi anche al Brasile a causa delle misure antipopolari che sono state varate.

DI FRONTE A UNA PROSPETTIVA di questo tipo e dopo l’appello di Lula a scendere in piazza contro il governo, Eduardo Bolsonaro e il ministro dell’economia Paulo Guedes hanno richiamato la possibilità di ricorrere a misure emergenziali in caso di rivolte sociali, con la sospensione delle garanzie costituzionali, come avvenne durante la dittatura con l’Atto Istituzionale 5. Nel Brasile di Bolsonaro tutti gli scenari sono possibili.