Il tifo non è quello dei mondiali di calcio, ma attesa e tensione pervadono comunque la società brasiliana per le elezioni di oggi. Una partita determinante, secondo tutti gli analisti. I 142,8 milioni di aventi diritto, su una popolazione di 202 milioni, dovranno esprimere la loro preferenza anche per le legislative e le regionali, ma il gioco più grosso riguarda le presidenziali. I tre candidati più rappresentativi si stanno battendo fino all’ultimo voto, nei dibattiti televisivi e nelle strade.

Prima di tutto la presidente, Dilma Rousseff, del Partito dei lavoratori (Pt), e poi Marina Silva, del Partito socialista brasiliano (Psb) e l’ex senatore Aecio Neves, del Partito della socialdemocrazia brasiliana (Psdb), la formazione che ha guidato il paese dal 1995 al 2002. Secondo i più recenti sondaggi, quest’ultimo ha effettuato una notevole rimonta nel gradimento dei lettori e ha quasi raggiunto Silva, in calo dopo il primo effetto dirompente. La presidente rimane ampiamente favorita, sia per oggi che in una probabile seconda volta, il 26 ottobre. Secondo alcune inchieste potrebbe farcela persino al primo turno. Altrimenti, al ballottaggio, le intenzioni di voto le attribuiscono una vittoria per 48% a 41% su Silva (secondo Datafolha) e per 43% contro il 36% secondo l’Istituto Ibope. Sempre secondo Datafolha, il 74% dei brasiliani desidera un cambiamento. Ma di che natura?

Le contestazioni che hanno accompagnato la preparazione dei Mondiali di calcio, scoppiate a giugno del 2013, hanno posto con forza la domanda: proveniente prima di tutto dai settori popolari, che hanno vigorosamente richiamato Rousseff alle sue promesse, e chiesto al Pt un freno alle privatizzazioni e una politica conseguente contro speculazioni e corruzioni; sia dalla classe media, che ha avuto accesso a un maggior benessere in 12 anni di governo progressista, e chiede di più.
Una proposta dichiaratamente di sinistra, avanzata per esempio da Luciana Genro, del Partito socialismo e libertà (Psol) non va però oltre l’1% nelle intenzioni di voto e la partita è tutta interna al riformismo variamente modulato del Pt o a quel che gravita più decisamente alla sua destra.

Ai poveri delle favelas, che costituiscono la maggioranza dei votanti del Pt e che periodicamente protestano per lo strapotere della polizia, Rousseff ha perciò cercato di spiegare che certo non troverebbero di meglio nei programmi dei due candidati conservatori o moderati: né in quello di Neves, né in quello di Silva. Nonostante il richiamo ai suoi trascorsi di bambina povera e al significato che potrebbe avere una presidente di pelle scura in un paese in cui neri e mulatti rappresentano il 55% dell’elettorato, la proposta di Silva e dell’arco di forze che la sostiene promette sì un cambio di indirizzo, ma non in una direzione più spinta sul piano delle politiche sociali e su quello dell’integrazione latinoamericana. Per questo, artisti di sinistra e figure storiche della Teologia della liberazione come Leonardo Boff sono scesi in campo per avvertire del pericolo di un ritorno indietro e per sostenere – seppur criticamente – il Pt.

A fine settembre, si è svolto a Quito, in Ecuador, un grande incontro internazionale dei movimenti e delle organizzazioni sociali dal titolo «Le rivoluzioni della Patria grande, obiettivi e sfide» in cui le tornate elettorali che interessano alcuni paesi latinoamericani nel corso di questo mese – Brasile, Perù, Bolivia e Uruguay – sono stati al centro delle analisi. In molti hanno lanciato l’allarme sul pericolo che rappresenterebbe l’elezione della «Capriles brasiliana» (Marina Silva): alludendo al trasformismo dell’ex candidato presidenziale di opposizione in Venezuela. Il ciclo che sul finire del secolo ha portato al governo il socialismo in Venezuela e poi il cambio di indirizzo in altri paesi, non è più in ascesa, né il trend economico previsto per l’anno che viene favorirà le scelte progressiste nei grandi paesi come il Brasile o in quelli più spostati a sinistra: «La festa è finita», hanno preannunciato Fmi e Banca mondiale.

Le forze conservatrici si stanno riorganizzando, forti dei nuovi accordi di libero scambio con i quali intendono accerchiare l’arco alternativo del continente latinoamericano. E che Dilma abbia volto lo sguardo verso i Brics e verso l’integrazione latinoamericana è un boccone quanto mai difficile da digerire per Washington.