Un poeta spiegato è come un fiore appassito, il suo posto è solo nella pattumiera. Al bruco spuntano le ali e quando avrà forato il vecchio involucro, volerà liberamente per il mondo, farfalla splendida e leggera. Il filosofo è fatto di carne e ossa «ha paura, si rallegra, ama, odia, si stanca, si stiracchia, sonnecchia, dorme persino – esattamente come i comuni mortali». Questi alcuni degli aforismi del filosofo di origini ebraiche Lev Šestov, pseudonimo di Jeguda Lejb Švarcman, appena pubblicati in Sradicamento (traduzione e cura di Dario Borso e Valentina Parisi, Morcelliana, pp. 272, € 23,00). Considerato uno dei primi esponenti dell’esistenzialismo, Šestov, figlio di un ricco e colto imprenditore, nacque e studiò a Kiev, dove la ditta paterna lo avrebbe tormentato, costringendolo a occuparsi degli affari e allontanarsi dallo studio e dalla famiglia.

In contrasto con il regime bolscevico, che voleva obbligarlo nel 1919 a scrivere una prefazione marxista a una sua opera, emigrò in Francia nel 1921 dove sarebbe restato fino alla morte, nel 1938. Subito tradotto, tra gli altri anche da Georges Bataille, diventò molto popolare e venne a contatto con i maggiori protagonisti della cultura europea, da Gide a Husserl a Heidegger.

Figlio di una civiltà morente
Il libro appena uscito raccoglie quattro opere di Šestov composte negli anni 1905-1910, Apoteosi dello sradicamento. Un tentativo di pensiero adogmatico, Le penultime parole, Filosofia e teoria della conoscenza, Dieci aforismi il cui procedimento aforistico in seguito abbandonò. Corredata da note (un po’ troppe), la nuova traduzione rende fluida e fruibile la complessa e contraddittoria argomentazione di questo filosofo dell’assurdo, discusso e attaccato sia in Russia, che all’estero.

Per il primo di questi libri, l’unico già tradotto, Raffaella Faggionato, aveva scelto, nell’edizione Trauben del 2005, il termine «precarietà», mentre ora la scelta di «sradicamento» intende riallacciarsi – dichiara Valentina Parisi nella postfazione – al francese déracinement: così, infatti, Boris de Schloezer, di origine russa, traduce il concetto cardine elaborato dall’amico Šestov bespocvennost’, alla lettera, mancanza di fondamento, della terra sotto i piedi». È questo il primo obiettivo delle opere proposte, che suscitarono scandalo e polemiche in patria: il trionfo dell’asistematicità e del frammento che mina alla radice i rassicuranti sistemi chiusi del razionalismo e della logica.

Senza mai accennarvi, il filosofo coglie la crisi della coscienza europea dell’inizio Novecento («noi figli di una civiltà morente»), ma anche quella della Russia provata dalla disastrosa sconfitta col Giappone e dalla prima rivoluzione.
Apoteosi dello sradicamento esce, probabilmente per caso, a febbraio, poco dopo la domenica di sangue che dà il via alle insurrezioni del 1905. Nell’introduzione Šestov dichiara che l’aforisma conserva e rappresenta l’insieme di pensieri del tutto sconnessi, privi di consequenzialità, e le necessarie contraddizioni che sono tessuto vitale del pensiero e dell’argomentare. Unica fonte di conoscenza è la vita, la nostra ragione, e la fallibilità umana ci porta a cercare costantemente una soluzione che non potrà essere mai trovata.

Le due parti di Apoteosi dello sradicamento sono esposte tramite riflessioni interrotte, disordinate e caotiche, e terminano entrambe così come sono iniziate: la prima con le parole di Heine (mondo e vita sono troppo frammentari per rinchiuderli in un sistema), la seconda con l’ammonimento a non salire in montagna se si soffre di vertigini. La filosofia, infatti non deve rassicurare ma turbare, in essa non deve dominare la linea retta bensì il brancolamento, unica strada verso la libera creazione.

La distruzione della logica spinge l’individuo nel mare aperto della fantasia e dell’immaginario in cui tutto è possibile. La vera forza è, perciò, la vertigine, la nostra attrazione per l’abisso, l’irrisolto. Non bisogna temere l’assurdo e il disordine ma amarli come parte inevitabile della condizione umana. E dal filosofo ci si aspetta che non abbia paura di interrogarsi sempre, di dubitare, anche quando può sembrare ridicolo, di mostrare la fragilità, la limitatezza e la goffaggine dell’essere umano.

Le donne e la ragione
Una nota curiosa sta nel passaggio in cui Šestov si rammarica che le donne, «uniche detentrici dell’illogicità», desiderino istruirsi per restare imbrigliate anch’esse nelle maglie della logica. Nelle sue opere ora riunite, si evidenzia subito quali siano i protagonisti delle riflessioni del filosofo: Dostoevskij, il grande artista del dolore umano, il «re solitario del pensiero, conte Tolstoj», il Nietzsche «studente di provincia con gli occhioni azzurri, onesto ma sempliciotto» della Nascita della tragedia, Socrate e Kant con le loro aspirazioni alla conclusione. Non a caso, Albert Camus parlerà della straordinaria monotonia di Šestov, un filosofo che si dirige nel deserto senza colori, in cui le certezze sono divenute pietre. Cercare la vertigine è per il pensatore opera solitaria, unico modo per condurre una ricerca seria, ultima parola della filosofia.