Brancaccio: «Sabato in piazza per la pace, giù le armi e su i salari»
Intervista L'economista Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), autore con Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli de «La guerra capitalista» (Mimesis): «C’è una pericolosa unione tra speculatori e guerrafondai. L’inflazione è alimentata dalla voglia dei profitti ai danni soprattutto delle classi lavoratrici. La guerra alimenta questa spirale»
Intervista L'economista Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), autore con Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli de «La guerra capitalista» (Mimesis): «C’è una pericolosa unione tra speculatori e guerrafondai. L’inflazione è alimentata dalla voglia dei profitti ai danni soprattutto delle classi lavoratrici. La guerra alimenta questa spirale»
Emiliano Brancaccio, economista e docente all’università del Sannio, lei parteciperà alla manifestazione di sabato per la pace. Quali slogan spera di ascoltare in piazza a Roma?
«Giù le armi, su i salari», per esempio. È elementare ma coglie nel segno. Partirei da queste poche parole nette dei sindacati conflittuali. Stiamo attraversando una fase della crisi capitalistica dominata da una pericolosissima unione di intenti tra speculatori e guerrafondai. L’inflazione è alimentata dalla voglia dei capitalisti in posizione di forza di far esplodere i profitti, a scapito dei concorrenti più deboli e soprattutto della classe lavoratrice. La prosecuzione della guerra non fa che alimentare questa spirale.
Nel suo nuovo libro «La guerra capitalista» scritto con Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli (Mimesis, in libreria dal 25 novembre), parlate della guerra russa contro l’Ucraina e vi soffermate su un altro aspetto chiave del conflitto, più di ordine economico che territoriale. Per quale ragione?
La questione del territorio è la più visibile, ma il massacro di civili e di giovani soldati pressoché inconsapevoli, dall’una e dall’altra parte, sta avvenendo per ragioni più profonde. Per quanto sia disturbante ammetterlo, l’Ucraina è solo una delle tante terre di confine che potevano costituire il pretesto da cui far partire un conflitto capitalistico di portata globale, che cova da tempo. Per spiegarlo, possiamo partire dalla scelta degli Stati Uniti e degli alleati occidentali di adottare misure protezionistiche presentate sotto il nome ipocrita di «sanzioni», contro la Russia ma anche e soprattutto contro la Cina.
Sta dicendo che le sanzioni economiche non sono una conseguenza della guerra ma una loro causa?
Sì, nel libro insistiamo su questo punto. L’inizio delle «sanzioni» americane e occidentali risale a molto prima dell’invasione russa dell’Ucraina, addirittura a prima di Trump. Con l’invasione sono chiaramente aumentate. Ma inviterei a interpretarle in una prospettiva storica molto più ampia. Dagli anni del libero scambio globale gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri paesi occidentali alleati hanno accumulato un enorme debito verso l’estero, in primis verso la Cina ma anche verso la Russia e altri paesi asiatici. Da tempo gli occidentali tentano di porre rimedio a questo colossale squilibrio con chiusure finanziarie e commerciali che giustificano con varie pennellate ideologiche, non ultima la scusa di voler chiudere a regimi che oggi definiscono «illiberali» ma con i quali in passato facevano affari senza tanti scrupoli. Oggi le chiamano «sanzioni» ma in realtà è una continuazione del protezionismo.
Quando si potrà aprire un vero tavolo di trattative e sospendere queste atrocità?
Quando si allargherà lo sguardo e si capirà che non è solo una questione di territorio. Il punto decisivo è che bisognerebbe affrontare il nodo chiave del protezionismo americano e occidentale contro la Russia e la Cina. Questo problema è stato ripetutamente enunciato dai grandi attori della partita. Pochi giorni fa, il ministro degli esteri cinese ha ribadito che per creare un clima generale favorevole alla pace e per incentivare le mediazioni, gli Stati Uniti devono smetterla di bloccare le esportazioni e lo sviluppo della Cina. Se non si comprende che alla base c’è un colossale scontro capitalistico mondiale, non si comprende niente dei nuovi teatri di guerra.
In Italia prima Draghi e ora Meloni insistono sull’idea che la pace si può conquistare inviando armi all’Ucraina. Cosa ne pensa?
Nel libro ricordiamo che nell’ultimo ventennio le spese militari sono aumentate enormemente: del 440% in Cina, del 169% in Russia, del 58% negli Stati Uniti, del 22% nel Regno Unito. L’Italia è l’unico grande paese ad avere diminuito la spesa militare, di circa il 9 per cento. Draghi e Meloni hanno una gran voglia di recuperare terreno, per far sì che il nostro paese abbia di nuovo voce in capitolo nella lotta imperialista globale. E’ questo il motivo principale della loro smania di produrre e inviare armi, molto più che la difesa della popolazione ucraina.
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