Dopo Instantly elsewhere (Shockdom, 2018), che raccontava la vicenda di autore di fumetti che non riesce e smettere di scrivere scatenando così la reazione delle proprie creature divenute reali, lo sceneggiatore Lorenzo Palloni e il disegnatore Martoz tornano a lavorare insieme. Se nel romanzo precedente, insieme a un’ironica ispirazione autobiografica si percepiva forte il sapore fantastico, nel loro nuovo libro Terranera (Feltrinelli) all’azione e alla tensione si aggiungono molta violenza e uno schietto cinismo. La storia è quella di Jamill, Hassam e Driss, tre immigrati nordafricani, braccianti, scelti da Natale, un camorrista al soldo di un caporale spietato che gli ordina di incendiare una serie di discariche sparse per il paese, calpestando così gli interessi della mafia cinese. Il risultato, graficamente esplosivo, è un fumetto che tocca molti punti tetri della dimensione economica e sociale sommersa di un paese razzista e violento. Ne abbiamo parlato con gli autori.

Avete iniziato a scrivere e disegnare molto prima delle ultime polemiche e delle misure di regolarizzazione dei braccianti. Com’è nata l’idea di questo libro?
Lorenzo Palloni: Abbiamo iniziato a lavorarci durante il Conte 1, all’epoca del «Salvinismo» più oscuro. L’idea di base è nata leggendo una serie di articoli sui continui incendi dolosi di discariche nel Sud Italia. Mi sono subito immaginato un piccolo commando di camorristi che viaggiava attraverso l’Italia commettendo crimini. All’inizio sapevo solo che i protagonisti sarebbero stati tre migranti e un criminale a far loro da mentore. Lavorando con Martoz ho capito chi erano davvero Driss, Jamill e Hassam, e come poter parlare della situazione dei migranti da un punto di vista più umano. Il titolo, Terranera, è idea di Ale: un noir, un macrogenere accogliente, perfetto per il contesto sociale italiano, mai così oscuro, disgustoso e triste, con un affascinante titolo da fantasy.

Martoz: Ricordo che quando Lorenzo stava per sceneggiare la storia, ci fu un ritorno di fiamma e venne riaperta la questione delle discariche infuocate. Uscirono molti documentari e reportage sul fenomeno; erano anche i giorni della «Terra dei cuori» espressione celebre e decisamente infelice di Conte. Per quanto riguarda il dibattito sulla regolarizzazione dei braccianti, effettivamente il ritardo nell’uscita del libro dovuto al Covid19 è stato per noi tristemente fortunato: per mesi si è parlato solo e unicamente di Covid e ci si è dimenticati di altre questioni che non sono di certo scomparse con la pandemia. In questo momento delicato, questa storia può aiutare i lettori a sensibilizzarsi su questo tema che, oltre al razzismo, ci parla della nostra indifferenza.

Spesso si usano forme giornalistiche per affrontare l’argomento migranti. Voi avete scelto una narrazione di finzione e un genere che conoscete bene, il noir d’azione. C’è un aspetto di questo argomento che vi ha portato a questa decisione o vi hanno influenzato i vostri precedenti lavori?
M: Per noi la fiction è il mix perfetto tra intrattenimento e veicolazione di temi importanti. La crescente intolleranza nei confronti degli immigrati ci ha portato a scegliere la finzione narrativa: la sensazione che nel popolo si stesse propagando questo germe di odio ci ha portato a inventare personaggi, stereotipi ispirati a figure reali (il costruttore associato, il poliziotto corrotto, l’assessora collusa). Mi viene in mente la storia del matematico indiano Srinivasa Ramanujan, il quale aveva intuizioni matematiche (rivelatesi poi) vere ma che non riusciva a dimostrare: la fiction ha questo vantaggio sul giornalismo. Noi sappiamo che c’è questa presenza oscura tra la gente, possiamo e vogliamo parlarne senza il complesso vincolo dei dati, veicoliamo informazione attraverso l’intrattenimento. È «il miele sul bicchiere della medicina».

LP: Credo che il giornalismo parli a chi vuole ascoltare, la fiction anche a chi non vuole. Un po’ come dire «Leggiti questo noir d’azione, divertiti», e poi finisci per acquisire un nuovo punto di vista sulla realtà; la fiction è il modo in cui i tre diktat ciceroniani dell’orazione-narrazione movere, docere, delectare esprimono il loro massimo potenziale, e noi li abbiamo fatti nostri. Sicuramente il fine ultimo è far riflettere i lettori sui privilegi che hanno, che danno per scontati, ottenuti sulla pelle di fetta di società più grossa, nascosta, e sofferente. Certo la drammatizzazione, l’enfatizzare eventi e prospettive, porta sempre con sé il rischio di non essere capiti, ma è l’unico modo che abbiamo per approcciarci ad un medium sintetico come il fumetto, che non può esplorare le sfumature testuali del pensiero in prosa. Romanzi come Il Lungo Addio di Chandler, un noir pieno di morti e sparatorie che in realtà è un inno all’amicizia, o Casino Royale di Ian Fleming- una spy-story che indaga i limiti della fiducia umana- sono per me fondamentali. Questo voglio fare: divertire con una storia che racconta tutt’altro. Il noir permette di incastrare la finzione con una riflessione su società e realtà, senza compromessi, in modo diretto. Generi come fantascienza e fantasy hanno bisogno di un passaggio di comprensione in più, il noir ti dice: «Guarda, questo è il tuo mondo. Le cose girano così, anche se non lo vuoi ammettere». Sicuramente ho una predilezione per il genere. Facciamo fumetti in un momento storico in cui la mancanza di empatia nei confronti del prossimo ha raggiunto vette straordinarie, dove sentimenti rabbiosi cavalcano un governo già debolissimo: un paese per la maggior parte fascista e folle, non possiamo accettarlo. L’unica cosa da fare era usare i nostri mezzi per denunciare un paese ostile e incattivito, popolato da tanti agnelli preda dei troppi lupi che se ne approfittano.

Il protagonista aguzzino del vostro racconto, Natale, è la summa di molte negatività. È un criminale violento, prepotente, spaccone e pasticcione, pusillanime e stupratore ma un certo punto recita un’Ave Maria, e non sembra del tutto ignorante: ci sono dei modelli concreti ai quali vi siete ispirati o la sua è semplicemente una deriva estrema di una condotta immorale?
M: Incoerenza è una parola chiave: la tremenda incoerenza del professarsi cristiani e avere comportamenti che mortificano i valori cristiani. La nostra popolazione possiede pochissime armi, siamo poco violenti, c’è un basso tasso di omicidi; eppure commettiamo altri generi di violenza, come quella sui braccianti (per dirne una), perché è una cosa distante da noi. Siamo complici indiretti, non ci sporchiamo le mani, non assistiamo al dolore. Non voglio generalizzare, Natale non rappresenta tutti gli italiani, è piuttosto l’allegoria di una problematica.

LP: Nessun giudizio morale. Natale è un essere umano acculturato che delinque perché non sa fare altro, ma è un pessimo delinquente e lo sa. Figlio di criminale, non ha potuto far altro che diventarlo lui stesso, perché sostanzialmente è pigro, vive grazie ai favori degli amici più importanti. Si attiva solo quando la sua vita è in pericolo, con una modalità animale. Natale è una summa di vizi e necessità di un certo mondo, più che di negatività. Ma non è solo vittima della società o di un sistema; nel racconto ha molte occasioni per redimersi, ma sceglie di non farlo perché è più comodo continuare il proprio stile di vita che compiere un gesto umano. Volevo che Natale fosse l’uomo della strada, l’«italiano medio» portato alle estreme conseguenze. Tutti potremmo essere Natale: a volte lo siamo.

Neanche la polizia si salva…è corrotta e incompetente. Sembra di nuovo che abbiate anticipato la cronaca di questi giorni…
M: Un paese ha la classe politica che merita. Ribaltato, la classe politica rispecchia il popolo. Quindi non dobbiamo stupirci di trovare del marcio anche nelle altre istituzioni. Non voglio assolutamente generalizzare sulla corruzione in polizia, ma neanche chiudere gli occhi su singoli casi gravissimi. C’è un graduale degrado socio-culturale nel Paese che si ripercuote sui vari organi dello Stato. L’abbiamo visto anche coi magistrati, per decenni ci siamo raccontati la favoletta della magistratura come un unico blocco granitico di eroismo e bontà, invece abbiamo scoperto che sono persone.

LP: Sono cresciuto leggendo indagini di poliziotti compassionevoli e guardando film con detective geniali. La realtà è lontanissima. In Terranera abbiamo portato all’estremo il concetto e abbiamo sicuramente espresso la nostra sfiducia nel sistema, che personalmente trovo davvero troppo iniquo e ipocrita. Troppi privilegi per poche classi; i poliziotti sono i mastini all’ingresso della villa, al soldo di cinesi, camorristi, e chi più ne ha più ne metta. Il caso di George Floyd riguarda una corruzione morale radicatissima, uno sfasamento di umanità difficile da digerire. Sono ossessionato dai poliziotti corrotti, tanto nel portafoglio quanto nell’anima, e quando posso li infilo nelle mie storie, per cercare di srotolare e capire le tensioni che li lacerano. Pensa che da dieci anni sto lavorando a un libro sulle rivolte razziali di Los Angeles. Si intitola 6592 ed uscirà in Francia l’anno prossimo per Sarbacane. Un’altra occasione per criticare il sistema, e Floyd mi porta a spingere ancora di più sull’acceleratore.

Parliamo dell’aspetto grafico: la gabbia del fumetto ha un andamento abbastanza regolare interrotto da delle splash page che ricordano il primo Martoz. Come monti una sequenza e quando scegli il campo lungo o lunghissimo a pagina intera?
M: Abbiamo deciso di optare per una estrema regolarità, da una parte per facilitare la lettura e rafforzare il contrasto tra griglia semplice e i disegni pazzi che contiene e dall’altra potenziare l’impatto di alcune scene rompendo la griglia solo in quei momenti. Le ragioni sono narrative, perciò anche il montaggio delle sequenze avviene in quest’ottica. Volevamo un fumetto dall’approccio cinematografico e strettamente funzionale.

LP: Aggiungo che secondo me Alessandro esprime il mille per cento di sé stesso quando è ingabbiato, quando al caos primitivo e caldissimo dei suoi disegni non aggiunge la difficoltà comprensiva di una splash con inset, di un’organizzazione complessa delle vignette: se si tiene in una «gabbia Bonelli», allora il suo storytelling è del tutto comprensibile, all’istante.

Martoz, le sequenze sono scandite anche a livello cromatico; sono spesso «false bicromie» perché accosti colori contrastanti, che a colpo d’occhi potrebbero sembrare complementari. Puoi spiegarci questa scelta?
Lo stacco cromatico mi è servito a suddividere nettamente le scene. Per un fumetto molto denso e veloce, era necessario che il colore guidasse il lettore nell’avvicendarsi dei luoghi. Gli accostamenti cromatici li ho scelti in base al contenuto della scena, in un paio di casi ho scelto accostamenti conturbanti, quasi malati, in accordo con l’insania della sequenza.

La deformazione fa parte della tua cifra stilistica, ma sembra che in questo racconto di genere si combini con un uso ad hoc della prospettiva. A cosa ti sei ispirato?
Questo è quasi un fumetto di realtà; ho optato per un approccio più realistico e sono stato più attento alla credibilità delle prospettive. Volevo che si percepisse una tremenda concretezza in contrasto con la deformazione e il suo ruolo metaforico. Realistico, deforme, metaforico, concreto: questa ricetta ci sembrava la più adatta per questa storia. C’era il bisogno di far sentire tutta la pesantezza di una situazione reale.

Terranera è anche la storia della fuga fallita dai caporali perché i protagonisti non hanno la minima intenzione di infrangere la legge, di bruciare, di uccidere. Si vedono spesso piangere, poiché oltre che alla violenza fisica, abbondano minacce, insulti, insinuazioni, oltraggi. Se la dimensione umana dei migranti è cancellata nel viaggio, il caporalato fa tabula rasa della psiche. Non sono sicura che le misure legislative da poco introdotte sulla regolarizzazione dei migranti tengano conto della brutalità di queste relazioni.
M: Come ha sottolineato Aboubakar Soumahoro, siamo arrivati a parlare di regolarizzazione dei braccianti per pura utilità, non per la questione dei diritti umani o per tutelare i diritti dei lavoratori ma perché rischiavamo di rimanere senza pomodori. È servita una pandemia per renderci conto che c’è un problema nel lavoro dei campi. Se la situazione si smuove per ragioni così egoistiche non dobbiamo stupirci se poi la legge che ne risulta sia così incompleta o inefficace. Siamo grandi esperti di cose fatte a metà, andiamo sempre a depotenziare le soluzioni che quindi non eliminano il problema: la legge sulle unioni civili ha lasciato fuori le questioni più spinose come l’adozione e lo Ius Soli è la dimostrazione lampante che noi abbiamo un problema con la diversità, come se i diritti si ereditassero e fossero territorialmente limitati.

LP: Assolutamente d’accordo. La violenza a cui queste persone sono quotidianamente sottoposte è fuori scala, non incasellabile nel sistema, quindi si fa prima a sopirne la comunicazione, a evitare di pensarci, soprattutto a livelli istituzionali. In Terranera ho voluto che i lettori entrassero nell’ottica della sofferenza quotidiana dei migranti, per questo tutto il primo atto della storia si svolge nel campo del paesino pugliese inesistente di San Germano in Fiore. Proviamo anche a dare una soluzione rapida e anti-italiana, nel finale, che spero sia anche un vago monito, perché finché non risolviamo i nostri problemi con fascisti e razzisti, non potremo accogliere nessuno senza imporre ulteriori sofferenze. Se nel giallo è la logica a farla da padrone, nel noir è il destino, e un paese più noir del nostro non riesco ad immaginarlo.