Per la seconda volta in un anno, ieri archeologi, bibliotecari, archivisti, storici dell’arte e restauratori hanno manifestato a piazza del Pantheon a Roma contro il «modello Expo» adattato ai beni culturali. Sotto una pioggia battente, centinaia di giovani professionisti hanno denunciato il ricorso programmatico dello Stato e dalle sue propaggini locali al lavoro gratis o al volontariato. È stato denunciato il bando della Soprintendenza capitolina che cerca volontari per svolgere attività gratuite nei musei e nelle aree archeologiche della Capitale. Proprio come a Milano, dove il Touring club sta reclutando mille volontari per svolgere il ruolo di guide ai monumenti durante l’Expo, a Roma si ricorre al lavoro gratuito o a prestazioni pagate simbolicamente (3 euro l’ora) per svolgere servizi di prima accoglienza, informazione e accompagnamento. I tagli, il ricorso sistematico ai privati e il fatale blocco del turn-over e dei concorsi (quando si fanno, non si assume) hanno spinto il Ministero dei beni culturali a credere che il volontariato sia un’attività sussidiaria all’assunzione di figure specializzate.

La trasformazione è stata ufficializzata mentre il Mibact è passato da Massimo Bray a Dario Franceschini. Con il precedente milanese, si può dire che è diventata sistema in tutto il paese. Un sistema che elude la normativa del codice degli appalti, già funestato dal ricorso generalizzato alle gare al massimo ribasso. Oggi è diventata la regola anche nel mondo dei beni culturali dove, solo pochi giorni fa, il ministro Franceschini e il sottosegretario Luigi Bobba hanno siglato un protocollo inter-istituzionale per il reclutamento di 2 mila «giovani» da impiegare gratuitamente per la tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio. Lo Stato userà manodopera volontaria sotto forma di «servizio civile». Abolito negli anni Duemila, oggi viene recuperato per trovare un’occupazione a costo zero per laureati o diplomati. Una prima contestazione contro questo accordo è avvenuta venerdì all’entrata dei Musei Capitolini, bloccata simbolicamente co un nastro rosso. Lo slogan era: «Noi non siamo a costo zero».

La mobilitazione di ieri è stata promossa dall’Associazione Nazionale Archeologi (Ana) e da Confassociazioni (160 associazioni, con 275 mila iscritti) e ha voluto affermare un principio elementare: «La cultura è lavoro e il lavoro si paga». Nella sua semplicità rivoluzionaria, questo slogan può essere applicato all’università, o al giornalismo, al lavoro nello spettacolo come a quello artistico. Rivela una condizione comune e coglie uno degli elementi del postfordismo applicato alla cultura: il sistema degli appalti e dei subappalti applicato tanto nei beni culturali, quanto nella logistica (ad esempio) e il ricorso alle cooperative che sfruttano i «cottimisti» del lavoro culturale: gli archeologi, i bibliotecari o gli archivisti. Lo stesso accade ai facchini nella logistica.

Cresce dunque la mobilitazione, spinta dal progressivo riconoscimento di una condizione comune anche agli studenti. Alla manifestazione di ieri hanno partecipato Link e la Rete della Conoscenza. E cresce anche la capacità di coordinamento e auto-organizzazione alla quale partecipano anche storici dell’arte o l’associazione nazionale dei restauratori. Insieme hanno elaborato un manifesto contro il «dumping spregiudicato» del lavoro volontario. Sull’onda del protagonismo culturale e politico degli archeologi si è formato un coordinamento con Confassociazioni e le altre realtà mobilitate. Tra le richieste c’è quella dell’assunzione dei vincitori l’ultimo concorso di Roma Capitale e il ritiro del bando della Soprintendenza capitolina. La domanda che spiega il senso del conflitto in corso è: «Se siamo abituati a pagare il medico, perché non paghiamo archeologi o restauratori che curano il nostro patrimonio culturale?».