Gli annali delle fasi finali del conflitto afgano alla fine avranno registrato anche questo: la liberazione dell’ultimo prigioniero americano in mano nemica accolta non con gioia ma con polemico sdegno da una buona parte del paese. Stampa e siti conservatori hanno infatti denunciato la liberazione Bowe Bergdahl per la «trattativa col nemico».

Mike Rogers presidente della commissione intelligence della camera ha gia’ dichiarato che »il negoziato coi talebani ha messo una taglia sulla testa di ogni soldato Americano rimanente in Afganistan».
In realtà gli Usa trattano coi talebani da diversi anni, e non solo su questo caso . Gli incontri avuti con la leadership talebana a Doha hanno ad esempio accelerato la progressiva rottura con Hamid Karzai. Nel caso specifico su Bergdahl le trattative vanno avanti da anni. Sui retroscena della vicenda nel 2012 aveva scritto un lungo reportage per Rolling Stone Michael Hastings, il giornalista (poi morto in un incidente d’auto mai del tutto chiaro) responsabile per l’exposè che aveva provocato le dimissioni del generale Stanley McChrystal.

Già nel 2011 si era stati vicini all’accordo che prevedeva lo scambio con 5 dirigenti telebani detenuti a Guantanamo. Allora furono i talebani a tirarsi indietro per l’insistenza americana che i prigionieri rilasciati rimanessero nel Qatar che agiva da intermediario. I negoziati sarebbero in seguito continuati per più di tre anni, condotti da esercito, dipartimento di Stato e Casa Bianca. Alla fine gli Usa hanno accettato di ridurre il «confino» che i talebani avrebbero scontato in Qatar ad un solo anno e Bergdahl è arrivato all’ospedale militare americano di Landstuhl.

Ma la notizia non è esattamente stata accolta trionfalmente. Le critiche vertono sul fatto che Bergdahl non è un «vero» prigioniero ma un disertore. Al tempo della sua cattura il soldato aveva volontariamente abbandonato la base della provincia di Paktika. In precedenza aveva inviato una serie di email ai genitori in cui si diceva disilluso con la missione americana, scrivendo tra l’altro «Questa gente ha bisogno di aiuto e invece hanno il paese più presuntuoso del mondo che gli dice che non sono niente, che sono stupidi, che non hanno alcuna idea di come vivere».

Un giorno di giugno del 2009, dopo un turno di guardia, Bergdahl che prima di arruolarsi aveva studiato buddismo zen e poi tentato di unirsi alla legione straniera francese, aveva lasciato alla base la pistola, si era allontanato senza permesso e disarmato con l’intenzione di raggiungere a piedi il Pakistan e poi l’India.

Dalle testimonianze raccolte da Hastings, dai commilitoni e dai genitori, emerge il ritratto di un ragazzo eccentrico e solitario cresciuto in una fattoria dell’Idaho. Si era appassionato a reality di sopravvivenza e aveva pensato di trasferirsi in Africa per combattere i guerriglieri di Kony, optando infine per l’arruolamento nell’esercito dove si era trovato fin da subito a disagio. Un percorso tortuoso e obliquo che lo aveva portato in Afghanistan con presupposti che ricordano quelli del «talebano americano» John Walker Lindh.

È diventato presto chiaro che Bergdahl era stato trasferito in territorio pachistano dov’era custodito dalla rete Haqqani. Le trattative per ottenere la liberazione sono iniziate nel 2010, e così anche le polemiche. All’epoca un commentatore della Fox si era spinto a dire detto che i talebani avrebbero potuto «risparmiarci le spese legali» se lo avessero giustiziato. Alcuni suoi commilitoni non hanno fatto segreto dei dissapori per essere stati impegnati nelle ricerche dopo che era stato catturato dai talebani, operazioni in cui avrebbero perso la vita alcuni soldati. David Petraeus – all’epoca comandante delle operazioni afgane – invece era a favore del negoziato, ricordando l’obbligo implicito (il «sacro impegno» lo ha definito ieri il ministro della difesa Hagel) di leave no one behind; mai abbandonare un compagno al nemico.

Ma come con l’affaire Benghasi, la destra vede ora l’opportunità di usare la vicenda come grimaldello anti Obama nelle prossime elezioni. Bergdahl non era nemmeno arrivato in Germania che sui siti conservatori fioccavano dietrologie fantasiose, da chi identificava il padre di Bergdahl come un cripto musulmano a causa della lunga barba (sebbene i genitori del ragazzo siano invece devoti calvinisti) a chi ha visto nell’emaciato giovane dell’Idaho un vero omologo del sergente Brody, protagonista della serie Homeland.

Quest’ultima ipotesi ha trovato favore nella blogosfera conservatrice dove si sono moltiplicate speculazioni sulla possibile conversione e «riprogrammazione» di Berdahl da parte dei suoi aguzzini a scopi segreti. Una logica secondo cui la stessa sopravvivenza del prigioniero è di per se sospetta – a meno che non si spieghi con una connivenza coi propri carcerieri.

Se questa è un’indicazione, il superamento del trauma della prigionia che il personale dell’ospedale militare sta cercando di fargli superare in questi giorni, potrebbe essere il minore dei mali per il soldato Bergdahl che tornerà in patria in un turbine politico destinato a durare fino alle elezioni d’autunno.