Fuoriesce dallo schermo di una console per videogames, circondata da buste dell’Esselunga, confezioni di spaghetti Barilla, Baci Perugina e aerei easyjet: probabilmente non è oggi molto più di questo, un marchio tra i marchi, la Venere di Botticelli, che Tomoko Nagao, un’artista giapponese di quarant’anni, di base da qualche anno a Milano, ha rappresentato un paio di anni fa come un manga, con l’Ora a destra che le offre una crema di bellezza e Zefiro e Clori a sinistra che arrivano volando con Hello Kitty sul mantello. Denuncia dello sfruttamento commerciale dell’arte o riuso con l’intento di incorporare il passato nel presente? Fatto sta che, tra parodia, adattamento e commercializzazione, l’arte classica è sempre più presente nel nostro immaginario quotidiano, fino al caso paradossale di ragazze e ragazzi che imitano senza saperlo le pose iconiche che vengono da figure del passato. Assumono, ad esempio, la posa della stessa Venere, le ragazze fotografate da Rineke Dijkstra sulle spiagge di Hilton Head Island in South Carolina o di Kolobrzeg in Polonia per i suoi Beach Portraits del 1992: l’autrice, dice, non aveva nessuna intenzione di riferirsi a Botticelli, ma la posa è inequivocabile e il richiamo immediato.
Il caso di Botticelli è probabilmente il più clamoroso per almeno due ragioni: perché è di livello mondiale e perché è un fenomeno assolutamente moderno. Riscoperto dai preraffaelliti inglesi a fine Settecento, a differenza di miti universali e senza tempo come Raffaello e Michelangelo, Botticelli è entrato nella modernità senza quell’apparato di culto che aveva già in parte imbalsamato i due più famosi artisti del Rinascimento italiano. Proprio perciò Botticelli si presta come case-study ideale per esplorare i meccanismi, tanto estetici quanto commerciali, del riuso: trasformata in un vestito da Dolce&Gabbana, rivisitata da Lady Gaga nella fantasia di Jeff Koons per l’album Art pop, utilizzata da Shell, Bulgari, Accenture e Biotherm per le loro pubblicità, la Venere diventa strumento di propaganda queer nella stampa in bianco e nero dell’americano Joel-Peter Witkin, che la trasforma in ermafrodito con vistosissimo pene, o di protesta ecologica nel collage del brasiliano Vik Muniz, che la fa emergere con capelli di corda da un mare pieno di rifiuti. Prima di loro era arrivato, come sempre in questo campo, Andy Warhol, che nel 1984 aveva ridotto la Venere a Marilyn, facendo del suo volto un’icona pop in linea col mito delle celebrities: compare infatti solo la faccia nella sua serie di Details of Renaissance Paintings, con l’obiettivo di far prevalere la semplicità della riproducibilità sulla complessità della composizione. Il risultato era banalizzante, riduttivo, provocante, scandaloso, demitizzante e demistificante: Warhol, appunto; ma tale da ispirare la Venere cinese di Yin Xin o la già ricordata pubblicità di Accenture. Così ridotta a facile strumento memoriale la Venere poteva entrare nel cinema, dalla bellissima scena in cui Ursula Andress compare dal mare con due conchiglie in mano a un estasiato Sean Connery in Dr. No di Terence Young del 1962 (da noi ben più famoso come Agente 007 – Licenza di uccidere) all’elegantissima parodia del dipinto offerta da Terry Gilliam nelle Avventure del barone di Münchausen (1988).
Non di sola Venere si tratta, però, perché nel 1976 la performer, regista e fotografa austriaca Valie Export usava la Madonna della melagrana per autorappresentarvisi con un montaggio fotografico con aspirapolvere in grembo nello stesso tondo, a mo’ di denuncia degli stereotipi della società patriarcale, che dalla rappresentazione religiosa si estendono automaticamente al lavoro domestico. Se qui la Vergine finiva col fare le pulizie, la body-artist francese Orlan la faceva addirittura spogliare, trasformandosi all’estremo opposto proprio nella Venere del Botticelli, in una performance del 1974-’75, con l’intento di desacralizzare il corpo della Madonna col bambino e risacralizzare il corpo nudo della donna alla luce dell’arte rinascimentale.
Fin qui è in questione un percorso prevalentemente tematico sui riusi pop della pittura di Botticelli, ma la mostra al Victoria & Albert Museum di Londra (Botticelli Reimagined, fino al 3 luglio 2016, £ 15,00; catalogo a cura di Mark Evans e Stefan Weppelmann, pp. 360, solo in hardback, £ 30,00), già alla Gemäldegalerie-Staatliche Museen di Berlino, non dimentica le dimensioni estetica, in primis, e storica, poi: collegando, un po’ forzosamente, il recupero di Botticelli ai principi compositivi della sua arte (grazia e geometria della composizione, stilizzazione delle figure e dei particolari decorativi, semplicità e definizione del tratto, immediatezza e luminosità del colore), la mostra sottolinea il valore formativo che il pittore fiorentino ha avuto nel corso della modernità per la ricerca visiva di molti artisti, da Jean-Auguste-Dominique Ingres e Edgar Degas, che copiavano la Venere a matita, a Antonio Donghi, palesemente influenzato dalla pittura rinascimentale, da Edward Baird, Raoul Dufy e René Magritte, tutti e tre in dialogo con Botticelli, fino alla street art con Rip Cronk che in un murale a Los Angeles del 1989 presentava la Venere coi pattini a rotelle sullo sfondo di un paesaggio urbano, e alla video art con Bill Viola, che in un filmato del 2002 si ispirava all’iconografia della storia di Nastagio degli Onesti oggi al Prado.
È stata la riscoperta operata dai preraffaelliti, tuttavia, a fare da sfondo al Botticelli pop documentato nella prima sezione della mostra. Qui, nella continuità tra il tardo romanticismo di un Walter Pater, che faceva di Botticelli il paradigma di una bellezza malinconica, e gli usi contemporanei, che sono sempre culturalmente costruiti dalla memoria ricevuta, sta la forza della mostra, che procede a ritroso, attraverso l’Ottocento e il Settecento, verso Botticelli stesso, di cui l’ultima sala offre numerosi capolavori e attribuzioni (le più in voga, benché ancora discusse), comprendenti la Pallade e il centauro degli Uffizi, la Natività mistica della National Gallery, il ritratto di Simonetta Vespucci dello Städel Museum di Francoforte e cinque illustrazioni della Divina Commedia, oltre a lavori di bottega, copie più tarde e possibili influenze: la più ampia ricostruzione dell’esperienza figurativa di Botticelli mai realizzata nel Regno Unito.
Ritrovarlo dopo aver visto le imitazioni, rivisitazioni e riletture di Walter Crane, Simeon Solomon, Arnold Böcklin, Evelyn de Morgan, Edward Burne-Jones, Dante Gabriel Rossetti e John Ruskin, che hanno reso Botticelli parte integrante del background estetico della modernità anglosassone, consente di vederlo con gli occhi dell’oggi, riscoprendo il passato non per la sua differenza ma per la sua permanenza. Accompagnata dalla voce di Bob Dylan, la cui canzone Sad-Eyed Lady of the Lowlands fu associata da Ulrike Rosenbach alla malinconia delle figure femminili di Botticelli, dalla musica di Debussy, che con la sua suite sinfonica per orchestra Printemps omaggiò la Primavera dello stesso Botticelli, e dalla recitazione di Vittorio Gassman che legge la Commedia dantesca, la mostra costruisce davvero una rete botticelliana della cultura occidentale che attraversa la storia e le esperienze. Non dobbiamo cercare la loro presenza nel nostro tempo, diceva dei classici Roland Barthes, ma i segni del nostro nel loro: alla fine della mostra si ha proprio la sensazione contraria, cioè quella di vedere Botticelli intorno a noi anche dove non c’è, ma forse è giusto così, perché le immagini che il passato ha riempito di significato ci aiutano a leggere il mondo e a collocarci dentro di esso. Prestigio e riconoscibilità, certo, ma anche profondità storica, interpretazione critica e spessore simbolico: se i miti vendono è perché lì si è depositato quel patrimonio di conoscenze che ci fa sentire parte di qualcosa e ci invoglia a oltrepassare l’evidenza. Altrimenti, perché intitolare a Botticelli l’ultimo cerchione della OZ Racing S.p.a.?