Il Dottor Johnson, il grande Cam delle lettere inglesi nel secolo del Grand Tour in Francia e Italia, a Palmira e Baalbek, inaugurò, da quel bastian contrario che era, «il piacere di andare dove nessuno va e di vedere quel che nessuno vede». E, coerente come sempre, all’età di sessantatré anni, con le ginocchia doloranti, un corpaccione poco adatto a cavalcare su terreni rocciosi, negato al nuoto, decise di partire per le Ebridi, circa cinquecento isole e isolette lungo la costa nord-occidentale della Scozia. Selvagge e spoglie, abitate da capoclan e i loro sudditi. Il sistema era ancora feudale, pochi parlavano inglese, i molti altri che conoscevano solo l’erse, un dialetto irlandese-scozzese semidimenticato, senza scrittura, abitavano in capanne dal tetto di torba; i più audaci emigravano in America. Fu come se la cattedrale di St. Paul si fosse messa in cammino – commentò il giovane Boswell. Il Dottore aveva coltivato un’immagine di sé seduto su una sedia traballante, al centro di una continua, tempestosa, conversazione con amici e ammiratori, gli intellettuali londinesi da Garrick, il teatro, a Reynolds, la pittura. Boswell e Goldsmith, perfidamente ribattezzato Dottor Minor, avevano il compito di stimolarlo o di finire con buona grazia nella polvere. Una volta Goldsmith si lamentò della violenza quasi fisica di Johnson, «quando la sua pistola ha finito i proiettili, ti dà un colpo col calcio».

Il Dottore si era provato con successo in ogni genere letterario, dalla tragedia alla critica letteraria, dalla filologia al giornalismo di opinione, e si era guadagnato una pensione di trecento sterline all’anno. Maestro della comunicazione, in tempi in cui i media erano solo due, la stampa e il passaparola, allora oscillante tra il pettegolezzo e a livello alto la conversazione, ebbe l’idea che da quel viaggio avrebbe potuto ricavare qualcosa di nuovo, di provocatorio da gettare in pasto all’opinione pubblica inglese che alle Ebridi e alla Scozia attribuiva scarso interesse – a cominciare da lui stesso. Ma di un mentore scozzese aveva bisogno per quella difficile impresa, come confidava all’amica Mrs Thrale, e quel compito spettò a Boswell, allora ventitreenne, scozzese di nobile famiglia, ben introdotto, vivace, agile da ogni punto di vista, pronto all’avventura. Che accettò con entusiasmo, e iniziò subito a buttare giù, ogni sera, la cronaca della giornata, più o meno ricca di incontri, da lui sollecitati, delle belle conversazioni, delle buone cene, dei cattivi letti, delle faticose cavalcate e delle improvvise tempeste.

Il suo Diario di un viaggio alle Ebridi, ottimamente curato da Andrea Asioli (Sellerio «Il divano», con illustrazioni di Thomas Rowlandson del 1786, pp. 353, euro 14,00), vide la luce in Inghilterra nel 1785-’86, solo dopo la morte di Johnson nel 1784, e dopo dieci anni che il Dottore aveva dato alle stampe il suo Viaggio alle isole occidentali della Scozia. Da quel giornalista colto che era, Johnson illustrò le ragioni economiche e antropologiche della decadenza della Scozia dopo l’unione con l’Inghilterra, avvenuta nel 1707. «Una grande massa della popolazione non è né ricca né felice: dalla gente che s’incontra nelle strade, nei villaggi, nelle botteghe, nelle fattorie, da tutti loro collettivamente si può dedurre la misura della povertà comune». Che è al disotto della sopportabilità. I vecchi capoclan sono diventati avidi latifondisti che derubano i miserabili fittavoli, presso i quali la bellezza è rara, la vita breve, la credulità e la superstizione sono onnipresenti, l’ignoranza e l’orgoglio vanno di pari passo. «Un tempo di ignoranza è un tempo di cerimonie. Cortei, processioni, commemorazioni, gradualmente scompaiono, se si diffondono mezzi migliori per ricordare gli eventi e preservare i diritti». Gli spettacoli della natura: mare in tempesta, deserto, montagne impervie incontrano il gusto del sublime o gotico che si stava affermando alla fine del secolo. «Le invenzioni dei romanzi gotici non erano così remote dalla credibilità come si pensa».

Tutt’altra musica nel Viaggio di Boswell. Ma chi era Boswell? Forse per la gelosia che spesso corre da biografo a biografo, Strachey lo fulminò senza appello: «Uno dei più grandi successi nella storia della cultura l’ottenne un fannullone, un degenerato, un ubriacone, uno snob…». Nella sua Vita di Samuel Johnson Manganelli, al contrario, quasi un amico, gli riconosce «una zampata lieve e infallibile, fulminante» per cogliere gesti, parole, frammenti di dialogo, «tutto ciò che avesse il segno caldo, ambiguo e volgare dell’esistenza; … non idee muovono quei suoi gesti velocissimi, ma si direbbe una muscolatura da animale intellettuale, una nervatura perfetta … Una prensilità svagata, ma sottile e fantasiosa; e soprattutto una felicità di mira». Quanto al Dottore, lui aveva il suo piano che confidò a Mrs Thrale: «Boswell loderà il mio coraggio e la mia perseveranza, e in cambio io celebrerò il suo buonumore e la sua perpetua allegria. Ha qualità migliori di quel che credessi, più acutezza nel discernere e maggiore immaginazione».

Dal 14 agosto al 22 novembre 1773, l’infaticabile giovanotto circondò di cure l’«Uomo Mirabile»: gli presentava i notabili da cui aveva ottenuto inviti, i capi Mcdonald e Macleod, scrisse anche a Lord Elinank, allo storico William Robertson, al filosofo e poeta James Beattie, a Lord Monboddo, e accademici vari. Di giorno lo scortava per via, era la sua spalla in pubblico, trovava alloggi per la notte e, quando non c’era niente di meglio e dormivano in un fienile, lui accumulava fieno sotto e sopra il Dottore. Di notte trascriveva le imperdibili conversazioni con gli ingenui nativi e i fatti salienti, come il bellissimo racconto della terribile tempesta a largo di Coll. Qualche volta filosofeggiava: «Persino gli scenari piacevoli migliorano col tempo, e sembrano più squisiti a ricordarli … Forse ogni godimento umano è lì per lì pervaso da tante ombre, e corrotto da tante scorie, che necessita di essere depurato dal tempo…». Il Dottore chiacchierava, si informava, e all’occorrenza spiegava, sempre di buon umore, paziente, e persino galante con le donne. Una sera una graziosa signora si sedette «sul ginocchio del Dottor Johnson, gli strinse le mani attorno al collo e lo baciò. ‘Rifatelo’, disse lui, ‘e vediamo chi si stancherà per primo’». In un’altra occasione la prescelta, una contadina, «gridò per scherzo: ‘Io amo quest’uomo! Cos’è mai vivere e non amare?’ Dopo che lei ebbe detto qualcosa, lui le prese con veemenza la mano e la baciò». Quella volta che il Dottore confidò che se avesse avuto un harem, le sue donne avrebbero indossato solo lino o cotone, o comunque tessuti di fibre vegetali, l’impertinente giovanotto fu colto da un fou rire incontenibile. Ma quando Johnson disse che suo padre era pazzo e lui non proprio sano di mente, questi intervenne a spiegare che «egli sa che con quella pazzia è superiore agli altri uomini». Il Dottore aveva letto e corretto il suo diario, e gli aveva raccomandato di scrivere velocemente, ‘al momento’, di non perdere mai il contatto – consiglio utilissimo a un temperamento boswelliano. In conclusione Johnson riconobbe che il tempo trascorso in Scozia era stato il più piacevole della sua vita – e le felici vignette di Rowlandson stanno a confermarlo.

Ma l’intransigente Mrs Thrale raccontò di aver udito uno scozzese che chiedeva al Dottore di ritorno dalle Ebridi cosa pensasse di quel paese. «‘È un paese proprio detestabile, signore’ rispose il Dottor Johnson. ‘Ebbene, signore’ rincalzò l’altro, piuttosto offeso. ‘È stato Dio a farlo’. ‘Certamente, lo ha fatto lui, ma dobbiamo sempre ricordarci che lo ha fatto per gli scozzesi, i paragoni sono odiosi … ma Dio ha fatto anche l’inferno’».