Arrivato a Quattro Castella, nei dintorni di Reggio Emilia, una trentina di paesani si fanno incontro per rendere omaggio al boss Antonio Dragone, originario di Cutro in provincia di Crotone. Siamo nel giugno del 1982, una data utile per rintracciare le origini della ‘ndrina che ha preso il suo nome e si è stabilita a Reggio Emilia per poi generare quella di Nicolino Grande Aracri, falcidiata dalle condanne con rito abbreviato già definito in Cassazione, e con rito ordinario con la recente sentenza del Tribunale di Reggio Emilia.

Sentenze importanti perché certificano l’esistenza della ‘ndrangheta unitaria e autonoma a Reggio Emilia e in Emilia-Romagna, una verità giudiziaria già nota come verità storica perché descritta da tempo nei libri e sui giornali locali.

Senza creare allarme sociale gli ‘ndranghetisti erano venuti a Reggio Emilia in seguito allo sviluppo edilizio della città. Un cavallo di Troia che gli uomini della ‘ndrangheta hanno usato in tutte le regioni del nord, mimetizzandosi nelle migliaia di lavoratori edili venuti da Cutro per lavorare, per affrancarsi da una condizione di miseria. Il soggiorno obbligato ha fatto il resto perché sono stati inviati al nord i professionisti del crimine che hanno fatto scuola ai picciotti venuti dal paese e ai criminali locali.

Tutto spiega la presenza, non certo il radicamento che invece s’è realizzato grazie all’aiuto di uomini nati e cresciuti a Reggio Emilia e in altre città della regione, veri e propri uomini-cerniera che hanno collegato due mondi: quello legale e quello illegale. Senza l’aiuto di costoro i mafiosi calabresi non sarebbero riusciti ad entrare nei gangli dell’economia locale. Negli ultimi anni c’è stato un cambio di passo perché imprenditori e professionisti di vario tipo hanno fatto il salto e si sono rivolti ai mafiosi chiedendo i loro servizi. Questa è la vera mutazione genetica intervenuta in campo imprenditoriale e nel mondo delle professioni.
Perciò più di una decina tra imprenditori e professionisti vari, i cosiddetti colletti bianchi reggiani, bolognesi, modenesi sono stati condannati: tra loro consulenti finanziari, un giornalista, un poliziotto. C’è stato un vorticoso giro di affari, per decine e decine di milioni di euro; una torta appetitosa.

Ecco: il danaro facile; tanti soldi da accumulare con l’illegalità, la corruzione, l’uso spregiudicato degli uomini della ‘ndrangheta. Corruzione e ‘ndrangheta sono agenti economici utilizzati per alterare il mercato e determinare condizioni di vantaggio illegale e criminale. È cambiata la cultura imprenditoriale di parte dell’imprenditoria del Nord che ha a che fare con i mafiosi con i quali tratta affari o ha relazioni commerciali. L’intervento mafioso è considerato un costo, è inserito nella colonna delle uscite, un affare come un altro senza badare alle conseguenze.

L’etica d’impresa non funziona come inibitore. L’apporto del mafioso, prima considerato un costo, come la corruzione di uomini politici e pubblici funzionari, adesso è diventato un investimento vero e proprio perché indirizzato a produrre utili ritenuti sicuri e sorprendenti. Va detto che ci sono anche imprenditori che rispettano le regole. Come i titolari delle 1.115 imprese passate al vaglio delle prefetture emiliano-romagnole perché hanno partecipato ai lavori del post terremoto. Solo 9 hanno ricevuto un’interdittiva, cioè lo 0,6% del totale. Il fatto è che ha funzionato l’accordo siglato a un mese dal terremoto tra la Regione, le istituzioni emiliano-romagnole e lo Stato, dai prefetti al ministero dell’Interno; e la ‘ndrangheta è stata cacciata dai cantieri altrimenti i rappresentanti di queste ditte sarebbero stati sul banco degli imputati di Aemilia. È una politica diversa da quella che s’è manifestata a Brescello il comune sciolto per mafia o in altri comuni dove la ‘ndrangheta ha trovato le porte aperte, perfino in forze di opposizione e non solo di governo.