Con modi e linguaggi diversi, l’assedio di Sarajevo, il genocidio di Srebrenica, il bombardamento del ponte di Mostar e la guerra degli anni Novanta sono stati raccontati da tanti artisti e intellettuali bosniaci che levarono potenti le loro voci contro le atrocità immani e l’ odio feroce che mise contro gli uni contro gli altri padri e figli, Nato e Balcani, ortodossi e musulmani, gente in divisa e gente disarmata, serbi, croati e bosniaci.

Sono stati raccontati dal regista Emir Kusturica che tuttavia scappò da Sarajevo durante l’assedio rifugiandosi a Belgrado e dal suo sceneggiatore, il poeta Abdulah Sidran che da Sarajevo invece non volle scappare e il Sarajevo Film Festival, nato per rafforzare il dialogo multiculturale dentro e fuori i Balcani. E poi Izet Sarajlic il poeta che ci ha deliziato con i suoi versi sul sentimento della perdita e del distacco, il giornalista e scrittore Miljenko Jergovic, che l’assedio lo ha vissuto e narrato nel suo libro di brevi e vibranti racconti Sarajevski Marlboro, prima di emigrare a Zagabria; il regista Haris Pašovic che in quegli anni produsse un indimenticabile Aspettando Godot di Samuel Beckett diretto da Susan Sontag.

E ancora gli scrittori Nenad Velickovic, Bozidar Stanišic, Dzevad Karahasan e Senadin Musabegovic che durante l’assedio aveva combattuto nelle file dell’esercito bosniaco e il drammaturgo Almir Imširevic, il quale ha esplorato il sentimento della colpa, miscelando dimensione grottesca e tragica. Per finire alle più giovani artiste visive e multimediali Adela Jušic, Lana Cmajcanin, Lala Rašcic, la generazione ’80 che sembra altrettanto attiva e reattiva rispetto alle contraddizioni del presente.

I campi
Ora, di nuovo, la Storia si dà appuntamento nella Bosnia Erzegovina, in piccoli centri e luoghi di frontiera come Lipa, Velika Kladuša e Bihac , zone gelide della rotta balcanica, nuovi campi di concentramento e teatro dei violenti respingimenti alle frontiere di migliaia di bambini, donne e uomini in fuga da guerre e povertà.
L’estate scorsa avevano fatto molto scalpore le dichiarazioni di Dino Mustafic, affermato regista e attuale direttore artistico del Mess Festival, il quale aveva denunciato il vocabolario totalitario e islamofobo di Milorad Dodik, membro serbo della Presidenza di Bosnia, ridicolizzando chi pure si era fatto venire in mente ‘idee sexy’ di accompagnare i migranti nei loro paesi di provenienza e nello stesso tempo si dichiarava felice per l’ aumento dei consumi dovuto alla loro presenza. Una presenza che ha risvegliato «sentimenti primordiali e mancanza di empatia come caratteristica inevitabile di una società malata di paura e risentimento, prossima a una nuova barbarie, condannata al tormento e spinta sulla via della violenza».

Pulitzer
Sui temi dell’islamofobia e dell’identità razziale, religiosa e nazionale Dino Mustafic aveva già diretto lo spettacolo Embarassed, un testo di Ayad Akhtar insignito del Premio Pulitzer nel 2013, e di rifugiati parla lo spettacolo Welcome presentato nella ultima edizione del festival Mess con la regia di Nermin Hazmagic (1986), prodotto dall’Associazione Kontakt. Qui l’acqua della piscina e i suoi bordi richiamano il Mediterraneo, il mare attraversato dai migranti, le coste greche, turche e italiane prima di incontrare le barriere sempre robuste della xenofobia, del razzismo e del fascismo che si stanno diffondendo in tutta Europa.

Tanja Šljivar (1988) scrive testi per il teatro, è nata a Banja Luka, ora vive tra la Germania e la Serbia. «Ogni volta che visito i miei genitori ho la sensazione che la guerra sia finita pochi mesi fa, e non 25 anni fa. I politici usano apertamente discorsi d’odio, le disuguaglianze economiche, la povertà e la disoccupazione e di conseguenza il nazionalismo sono ancora i temi e problemi numero uno in Bosnia. Se parliamo di i diritti LGBTIQ in Bosnia a situazione è ancora peggiore. I sistemi scolastici, le istituzioni religiose conservatrici e i media stanno fomentando sentimenti di odio e persino violenza nei confronti dei migranti e di LGBTIQ. Sono influenzata da pensieri marxisti, e tutto ciò è il risultato della transizione verso il capitalismo, è la sostanza del capitalismo stesso».

Viste da questo minuscolo angolo di mondo, arte e cultura sembrano, più che altrove, rigenerarsi misurandosi con lo spirito del tempo e con i suoi destini incerti e tragici, senza perdere disponibilità al cambiamento. Lo diceva in altre parole Ivo Andric: «Tutto ciò che questa nostra vita esprime tende verso un’altra sponda, verso una meta tramite cui acquista il suo vero senso. Tutto è un passaggio, un ponte le cui estremità si perdono nell’infinito… e la nostra speranza è su quell’altra sponda».

Selma Spahic
Selma Spahic (1986), nata in Bosnia, ha studiato regia all’Accademia di arti drammatiche di Sarajevo. Ha diretto in Bosnia-Herzegovina, Slovenia, Croatia, Serbia e Montenegro e insegna regia all’Accademia di Sarajevo. I suoi lavori sono stati invitati in numerosi festival internazionali. È stata curatrice del Mess festival di Sarajevo, promuovendo artisti emergenti e il teatro sperimentale internazionale.



Il tuo modo di scrivere per il teatro si può definire ‘documentary theatre’?

Hypermnesia, il mio primo testo del 2011, pubblicato al Theater Heute in Germania, era basato sulle storie di vita personale di otto attori di Pristina, Belgrado e Sarajevo. Mi ha permesso di iniziare il mio lavoro nel campo del teatro documentario e mi ha dato la libertà di creare testi di spettacoli basati su tanti tipi di materiali drammaturgici. Natatorium ideato con due drammaturghi, Marko Milosavljevic e Dino Pešut al Teatro Nazionale di Subotica, in Serbia, nasceva dal fatto che la città aveva il più alto tasso di suicidi in Europa in quegli anni, quindi abbiamo fatto molte interviste con la gente del posto e creato un testo post-drammatico immaginario con quattro attori. L’Assemblea era basato sulla trascrizione delle sedute in Parlamento dal 1996 al 2013, abbiamo raccolto più di tre ore di discussioni in Parlamento. Anche La mia fabbrica, ispirato al testo di Selvedin Avdic, parla di una città siderurgica, Zenica in Bosnia Erzegovina, dove abbiamo fatto numerose interviste a persone che avevano perso il lavoro.

In Croazia ho lavorato con attori di Varazdin, i loro antenati erano vissuti lì per generazioni. Varazdin è stata la prima città dichiarata ‘Judenfrei’ dai nazisti, ripulita etnicamente degli ebrei, e la nonna e le prozie degli attori erano lì e vedevano i loro vicini trasferiti nei campi di concentramento. Gli attori volevano reagire in qualche modo al revisionismo storico, sollevando la questione della nostra responsabilità personale e del significato del silenzio o dell’inazione nel contesto della tragedia. Alla fine dell’opera, abbiamo collegato la loro inerzia alla nostra inerzia al trattamento dei migranti oggi al confine tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina.

Temi sociali e politici al centro dei tuoi spettacoli…
Cerco soprattutto storie intime… Credo nella cura della società parlando delle verità del passato o del presente, per quanto dolorose siano, e non coprendole sotto il tappeto con i segreti transgenerazionali. E questa regione è piena di quelle storie, nascoste tra i muri delle case patriarcali. Ricerco il passato e il presente e con l’aiuto di attori e drammaturghi, il più delle volte creo piattaforme per storie intime.

So che hai lavorato con Tanjia Šljivar…
Sì, è una voce unica e amo suoi argomenti. Il suo testo All Adventurous Women Do, ispirato a un articolo di giornale sulle presunte gravidanze di un gruppo di adolescenti dopo una gita scolastica, è davvero brillante. Viviseziona «il cadavere» della nostra società, il sistema patriarcale e tutta l’ipocrisia nazionalista e religiosa.

C’è una nuova leva di autori che scrive per il teatro, molte donne…
Ci sono autori che non solo hanno qualcosa da dire sulla società, ma hanno anche un modo molto originale di dirlo. In Croazia ci sono Tomislav Zajec, a Ivor Martinic, Dino Pešut, Vedrana Klepica o Espi Tomicic. In Serbia, Biljana Srbljanovic, Olga Dimitrijevic, Tijana Grumic, Dunja Matic. Nelle accademie i giovani vengono incoraggiati a essere se stessi e a dire la loro verità. E le verità sono diverse, alcune hanno a che fare con la famiglia, altre con la sessualità, altre con l’identità, altre con il nazionalismo, altre con la lotta di classe … sono voci forti e coraggiose.

Il nazionalismo è un tema cruciale per le giovani generazioni?
È uno degli argomenti, ma non l’unico. Penso che siamo anche una generazione un po’ stufa di questo argomento. Dobbiamo riconoscerlo ma non abusare. Vediamo che la retorica nazionalista è spesso un modo per nascondere tutti i problemi veri della società: povertà, corruzione, ingiustizia sociale, un sistema sanitario che non funziona….Ne siamo stufi. Ha rovinato la nostra giovinezza e reso la società estremamente polarizzata. I giovani lasciano il Paese a centinaia di migliaia. Pertanto, in teatro i nuovi testi vanno oltre il nazionalismo, si concentrano sulle conseguenze, sulla vita di tutti i giorni e delle persone che lottano con un sistema assurdo e insoddisfacente.

Miljienko Jergovic
Recensendo nel 1995 Le Marlboro di Sarajevo, raccolta di brevi racconti di Miljienko Jergovic, poeta, giornalista e autore tra i più graffianti della letteratura jugoslava e post jugoslava, Goffredo Fofi ne evidenziava ‘la virtù del prosatore: sa ricorrere ad aneddoti che sprigionano tensioni generali, collettive e politiche come morali, anche se la politica e la morale vengono da sé, vengono dalla Storia che costringe le storie incatenandole al suo assurdo’.
E di politica, di morale, di Storia e assurde piccole storie c’è tanto anche ne Il padre, una sorta di autobiografia scritta nel 2010 subito dopo la morte del padre di Miljienko, Dobro Jergovic, pubblicata da poco in Italia per le edizioni «La bottega errante».

Miljienko Jergovic contestualizza con sguardi, a volte doloranti a volte dolcemente ironici, le vicende personali e della sua famiglia che si snodano dall’inizio del Novecento agli anni Novanta attraverso quell’«eterno confrontarsi con le identità», quell’intreccio e scontro di identità che è il motore della cultura e della storia dei Balcani.

Vicende che raccontano di suo padre, nato a Sarajevo, divorziato dalla prima moglie subito dopo la nascita del figlio, noto e apprezzato medico che curava la leucemia, croato di etnia e cattolico di fede, quando si poteva essere croati solo se cattolici e l’amore per la patria era tutt’uno con l’amore di Dio. Anche Miljienko dovette battezzarsi per ottenere la cittadinanza croata, quando all’inizio della ultima guerra lasciò Sarajevo per andare a lavorare a Zagabria. In famiglia c’era uno zio arruolato nella Wehrmacht e una nonna Štefanija che aveva aderito al movimento ustascia fondato da Ante Pavelic. Lei gioì all’arrivo delle truppe naziste che per prima cosa distrussero il tempio ebraico di Sarajevo ma finì che poi venisse condannata dai comunisti ai lavori forzati. La nona e il nono da parte di madre erano atei ma tra le zie di Dobro c’era anche Paulina Slavka Jergovic che divenne suora, costretta a scappare con la sorella Zlata a Buenos Aires per evitare, dicevano loro, ritorsioni da parte delle unità partigiane. Quegli stessi partigiani che un giorno arruolarono Dobro su un carro bestiame e lo portarono a Karlovac, facendolo forse entrare in quell’epica ed eroica autoesaltazione che portava a uccidere i nemici del popolo.

Una famiglia , quella di Dobro, fatta di identità diverse, dove a dispetto di tutto si viene educati a considerare le persone tutte uguali. Sarà la Storia a trasformare un ambiente familiare e politico in un’arena dominata da prevaricazioni e supremazie, sensi di colpa, calunnie, infedeltà e trasformismi. Laddove tutte le comunità erano miste con i musulmani che si sentivano come i serbi e i serbi come i musulmani, i croati come i bosniaci e viceversa, lì arrivarono quelli che si ritenevano migliori degli altri solo perché appartenevano a una nazione e non a un’altra. Calunnie e colpe ricadono quindi anche sui Jergovic, il padre accusato dai croati di essere in realtà serbo e il figlio considerato ‘un fallito e pure cetnico, che era fuggito proprio in Croazia e per di più a Zagabria, dove lo finanziava Soros l’ebreo’, entrambi privati della ’unica identità tra quelle umane che da noi viene considerata’.

Se Le Marlboro di Sarajevo aveva l’andamento di un blues, Il padre si muove lungo differenti registri e tempi musicali. Qui si trovano le pacate riflessioni su Dio che non è ‘come le sigarette, e uno non sa dove mettere le mani quando smette di fumare; possiamo liberarci in qualche modo di Dio, e al posto dell’infinito assoluto accettare il vuoto infinito, ma il modo in cui ci si avvicina a Dio durerà ancora a lungo dopo che lui non ci sarà più. La via rimane anche quando la meta non esiste più’. E non mancano registri brillanti, divertiti e ironici con le pennellate di costume sulle consuetudini dei pazienti di Dobro, di tre fedi diverse, i quali per tenere lontana la leucemia, gli regalavano di tutto, uova di casa, forme di formaggio di Travnik, galline, conigli, trote, e persino un maialino firmato ‘per il dottor Jergovic’.

Ma anche bottiglie di Stock, tantissime bottiglie di Stock che i Jergovic regalavano a loro volta agli amici e che riusciranno a smaltire soltanto durante l’assedio di Sarajevo, affogando nell’alcol angoscia e dolore di fronte alla barbarie e alla crudeltà della guerra.

E poi l’arrivo dell’Eurokrem, metà nocciola e metà cioccolato, e del mangianastri con le batterie di più lunga durata che arrivavano solo da Trieste e il puzzo che veniva dalla lavanderia dell’ospedale e gli odori rancidi e insopportabili della cucina dove ‘per trecentossessantacinque giorni all’anno, e per tutti e duemila gli anni di storia contemporanea occidentale, si cucinava lo stesso cibo’.

Famiglie e società che vivevano su equilibri delicati di convivenza vengono travolte da nazionalismi e sciovinismi che portano a una guerra che ‘sarebbe stata diversa da tutte le precedenti. Non solo più sanguinosa, ma più intima: sarebbe entrata nella famiglia..’.

Quando suo padre muore, Miljienko non va al funerale, vuole che Dobro rimanga il simbolo di una umanità perduta mentre ogni Paese balcanico insegue sogni di supremazia solitaria e di ‘ solitudine idilliaca… Per questo c’è Jasenovac, c’è Srebrenica o Vukovar…I nostri patiboli sono molto originali, così come le nostre ragioni per tagliare le gole. Le fosse comuni sono un desiderio di solitudine. Per questo ha senso vivere nel passato e non sperare nel futuro’. Il padre affida ai lettori un bel modo di esplorare le identità ai confini tra genetica, cultura e politica in un orizzonte di nuovo umanesimo o nuova umanità di cui si ha tanto bisogno.