Una lunga colonna di uomini costretti a camminare per chilometri scortati dalla polizia. Nei giorni scorsi si è visto anche questo a Bihac, cittadina bosniaca del cantone Una-Sana al confine con la Croazia, il più colpito dalla crisi dei migranti che attraversa il Paese da un anno e mezzo.

I profughi sono stati portati a Vucjak, un’ex discarica situata nei pressi di un’area minata ai piedi del monte Pljesevica, lì dove il mese scorso sono stati trasferiti altri 700 migranti. Un piano deciso dalle autorità locali in seguito alle proteste dei cittadini suscitate dai sempre più frequenti episodi di violenza registratisi a Bihac e Velika Kladusa, altra cittadina di frontiera gravata dalla crisi.

Sono caduti nel vuoto gli appelli delle organizzazioni internazionali critiche riguardo al luogo individuato dalle autorità. Anche la Croce rossa che inizialmente aveva sostenuto il piano di ricollocazione, ha minacciato di non offrire più assistenza se non verrà trovata un’altra sistemazione più adeguata. «Se continua così – ha dichiarato Selma Midzica, rappresentante della Croce rossa -, sarà una sconfitta per tutti noi».

Eppure le istituzioni locali tra cui i comuni di Bihac e Velika Kaldusa e il cantone di Una Sana, tirano dritto. «Un gioco politico», secondo Paola Lucchesi, giornalista e presidente dell’associazione Centar za Odrzivi Razvoj “Una” (Centro per lo sviluppo sostenibile), a Bihac da quindici anni.

«La ricollocazione dei migranti a Vucjak – spiega – è il solo mezzo a disposizione delle autorità locali per sbloccare la situazione e soprattutto per far pressione su Bruxelles perché faccia la propria parte. Perché quel che irrita l’Europa è la prossimità di Vucjak al confine con la Croazia, non certo il fatto che lì manchino le condizioni minime di accoglienza per i migranti. A questo proposito – Lucchesi – val la pena di ricordare che uno dei pochi centri di accoglienza autorizzati dal governo si trova a Hadzici, una cittadina a venti chilometri da Sarajevo pesantemente bombardata dalla Nato nell’estate del 1995. Una cittadina con un’elevata incidenza di tumori a causa della contaminazione del terreno di uranio impoverito. Ebbene, non ricordo nessuno indignato per la scelta di quel luogo che ad oggi ospita più di novecento migranti».

Da quando la crisi dei migranti ha colpito la Bosnia-Erzegovina, nell’area intorno a Bihac e Velika Kladusa si sono riversati migliaia di migranti che sperano di proseguire il cammino verso l’Europa. Con l’arrivo della primavera il flusso dei profughi è aumentato, fino a 150 al giorno.

Entrano in Bosnia dalla Serbia attraversando la Drina, il fiume che segna il confine naturale tra i due Paesi. Arrivano a Visegrad, Zvornik e Bijeljina per poi proseguire verso Bihac. Difficile per Sarajevo controllare un confine così vasto per mancanza di risorse umane ed economiche. Ha fatto discutere la proposta avanzata la scorsa settimana dal governo bosniaco di schierare l’esercito alla frontiera con la Serbia per arrestare il flusso dei migranti.

Proposta subito rigettata da Milorad Dodik, il rappresentante serbo della presidenza tripartita e in quanto tale anche comandante delle forze armate del Paese. Un rifiuto, quello di Dodik, funzionale a dimostrare le debolezze strutturali dello Stato bosniaco e avvalorare così le istanze secessioniste della Republika Srpska (una delle due entità di cui è composta la Bosnia-Erzegovina, a maggioranza serba).

Il confine ad est quindi rimane pressoché permeabile. Lo stesso invece non si può dire del confine a nord-ovest, quello con la Croazia. Feroci i controlli della polizia di frontiera croata accusata da ong e organizzazioni internazionali di effettuare respingimenti illeciti e di compiere abusi ai danni dei migranti.

Accuse respinte dalla presidente croata Kolinda Grabar Kitarovic secondo cui le ferite e le lesioni riportate dai migranti sarebbero causate dal «difficile terreno» che tentano di attraversare. Salvo poi ammettere che è normale che si ricorra a un po’ di violenza quando i migranti vengono respinti. Un gioco al massacro sulla pelle dei profughi e di una Bosnia ormai al collasso, un gioco macabro che Zagabria spera di veder premiato con l’adesione all’area Schengen.

A complicare il quadro anche le tensioni tra Croazia e Slovenia sorte in seguito alla disputa sul loro confine nella baia di Pirano. Tensioni che si stanno riverberando anche sulla gestione della crisi dei migranti. Il premier sloveno Marjan Šarec ha infatti lamentato un aumento degli attraversamenti illegali rispetto allo scorso anno dalla frontiera sloveno-croata.

Un fatto «inaccettabile» per il primo ministro che ha annunciato una serie di misure volte al rafforzamento dei controlli al confine. Misure che variano dall’aumento della presenza della polizia e dell’esercito, all’estensione di 40 chilometri del muro di recinzione fatto costruire nel 2015 lungo la frontiera con la Croazia, alla dotazione della polizia di ulteriori attrezzature tecniche, come i droni.

Insomma se Lubiana protesta contro l’idea del ministro degli Interni Matteo Salvini di edificare un muro tra i due Paesi, non ha alcun problema a rafforzarne un altro, quello con la Croazia.