Tagliare le borse di studio, «aumenterà il rendimento scolastico». Ne è convinto il ministro dell’Istruzione spagnolo José Ignacio Wert, che ieri – a quasi un mese dall’approvazione del decreto sulle borse di studio – ha difeso in parlamento il giro di vite sugli aiuti agli studi. Il decreto, che entra in vigore già con il prossimo anno scolastico e che riguarda soprattutto l’università, vincola l’assegnazione delle borse a criteri di rendimento che la legge precedente non prevedeva. L’assegno per le famiglie meno abbienti sarà diviso in due parti. Una, fissa, di 1.500 euro più i costi d’iscrizione all’università, a cui potrà accedere chi ha una media almeno del 5,5 (in Spagna il 5 equivale alla sufficienza); e una, variabile fino a 3.000 euro, che riceveranno solo gli alunni con una media non inferiore al 6,5. Una maniera – occultata dietro il velo della meritocrazia – di tagliare ulteriormente uno dei settori più martoriati dalle forbici di Rajoy. Ma, in questo caso, prima ancora della questione economica viene quella ideologica. Il decreto, infatti, minaccia il diritto universale allo studio, sancito dalla Costituzione spagnola e dalla Carta dei diritti umani: chi è (già) bravo può continuare a studiare, gli altri, che si cerchino un lavoro (che non c’è, soprattutto per chi non ha un titolo di studio). Un circolo vizioso che in parte spiega il disastro del sistema scolastico spagnolo, il più segnato, a livello europeo, dalla piaga dell’abbandono: il 25% dei giovani tra 18 e 24 anni lascia prima della laurea, secondo i dati dell’Eurostat.

L’idea che, in molti casi, siano proprio le difficoltà economiche – spesso accompagnate da una situazione di povertà culturale – a condannare gli alunni all’insuccesso scolastico, non sfiora nemmeno il ministro, che con questo decreto darwiniano non fa altro che alimentare la tendenza: i più in difficoltà restano relegati in un purgatorio senza possibilità di riscatto; avanti gli altri. Per qualcuno è meritocrazia, ma in realtà si tratta di eugenetica dell’istruzione: proprio quello che il sistema educativo statale, assolvendo la sua funzione sociale, dovrebbe impedire. Lo ha sottolineato anche il Consiglio di stato, che prima dell’approvazione avvenuta lo scorso 2 agosto, aveva sollevato varie obiezioni: «Le borse – aveva rilevato – devono garantire la possibilità di studiare a chiunque non abbia le risorse economiche per farlo, senza esigere un’infallibilità che agli altri studenti non viene richiesta».

Un’infallibilità che peraltro lo studente deve mantenere durante tutta la carriera scolastica. Chi non supera anno per anno tutti gli esami previsti dal piano di studi (o il 90% di essi con una media non inferiore al 6,5, per le facoltà umanistiche) deve restituire l’assegno e non può rinnovare la borsa l’anno successivo. Se, ad esempio, uno studente si ammala e non può pagare di tasca propria gli studi, si scordi della laurea. E lo stesso vale per chi lavora e studia (non certo un’eccezione nella fascia dei beneficiari delle borse) e non riesce a sostenere il ritmo imposto dal ministro. D’altra parte – parole di Wert – «noi gli paghiamo gli studi, non li paghiamo per studiare». Una dichiarazione perfettamente in linea con la svolta elitaria che il governo sta imprimendo all’istruzione: la riforma del sistema educativo approvata lo scorso maggio aveva infatti già introdotto un sistema di finanziamenti basato su un ranking dell’efficienza scolastica che rischia di condannare gli istituti e gli atenei meno prestigiosi a una cronica penuria di fondi; le tasse universitarie sono aumentate fino, in certi casi, a duplicarsi; e, a fronte di sanguinosi tagli alla scuola pubblica, sono stati concessi numerosi benefici al privato.

Il ministero non fornisce numeri, ma un sondaggio del País calcola che l’anno scorso (quando il requisito della media del 5,5 per la borsa basica già era in vigore) 10mila alunni sono rimasti senza aiuti per questioni di rendimento. 10mila giovani con il futuro condizionato da un voto. Quest’anno, con l’inasprimento dei requisiti, il numero è destinato a crescere.