Il reality contest che è la corsa alla leadership Tory ha finora prodotto quattro semifinalisti e un trombato, Dominic Raab. Per superare l’assicella serviva un minimo di 33 voti da parte dei 313 colleghi deputati. Con 126 voti (12 in più della tornata precedente), Boris Johnson si conferma capolista con ampio margine, anche se non ha ottenuto «l’incoronazione» – appropriata metafora quando la vittoria arriva per sconfitta totale o ritiro degli avversari. Lo seguono il ministro degli Esteri Jeremy Hunt con 46, Michael Gove (all’Ambiente) con 41, la forte ascesa dell’underdog Rory Stewart (allo Sviluppo internazionale) con 37 e, sul pelo dello strapiombo, Sajid Javid (ministro dell’Interno) con appena 33. Un’altra tornata giovedì a ora di pranzo, ed eventualmente una quarta, sempre quel pomeriggio, produrranno i due finalisti, uno dei quali continua ad avere tutta l’aria di essere Johnson. Intanto, prosegue la forsennata compravendita di preferenze di prammatica con annessi calcoli su chi appoggiare in modo da ottenerne incarichi. I risultati si vedranno giovedì.

Mentre scriviamo, i quattro sono impegnati in un dibattito televisivo sulla Bbc cui Johnson si era finora sottratto e dove ha tutto da perdere, vuoi per la sua gigiona cialtroneria, vuoi perché non ha una strategia credibile da proporre, a parte la promessa di generosi tagli fiscali al proprio blocco elettorale: la fascia di reddito (alla quale appartiene lui stesso) di almeno 50mila sterline l’anno (circa 75mila euro). Un colossale, sfacciato e italianissimo voto di scambio pur di scacciare Nigel Farage dai propri incubi notturni.

Nessuno piange l’inutile Raab. L’ex ministro per Brexit nella porosa compagine governativa di Theresa May, dimissionario per il suo dissenso nei confronti dell’accordo negoziato dalla premier, è un arcibrexittiere del tutto privo della stazza politica per azzardare l’uscita senza accordo che millantava. E poi, se c’è uno che ci farà uscire vivi o morti il 31 ottobre – pensano i membri del partito, ormai affetti da un isolazionistico cupio dissolvi per cui Brexit va ottenuto a ogni costo – ebbene, quello è Johnson. È questo l’unico barlume di logica nel pensiero di una comunità altrimenti ormai sul filo della nevrosi ideologica. Hunt e Gove restano più o meno dove li avevamo lasciati: non è giovato al primo essersi allineato ai recenti cinguettii di Trump anti-Sadiq Khan, né al secondo ripetere quanto lui, Michael, sia più intelligente della media: continuano a percepirlo tutti come il Giuda (azzoppava il primo tentativo del suo ex-amico Johnson alla leadership neanche tre anni fa) che sembra.

La sorpresa qui è Rory Stewart, il Corbyn dei Tories, l’etoniano dal volto umano che mette il suo passato di probabile spia dell’MI5 al servizio del “buon senso” moderato. Stewart, parvenu cui nessuno avrebbe dato una chance, ha fatto una convincente campagna “in mezzo alla gente” come nessun Tory ha mai saputo fare ed è l’unico remainer che ha il coraggio di guardare in faccia la realtà e che cercherebbe di resuscitare il mortifero accordo che è costato a May il cadreghino.

Il suo impersonare quel minimo di equilibrio di cui il partito era noto propugnatore – che faceva dei Tories il partito della “maggioranza” silenziosa prima che detta maggioranza cominciasse a strillare come un facocero – gli è valso questo appassionante salto in avanti. Che potrebbe anche durare tra i deputati, ma rischia di naufragare miseramente una volta nel mare aperto della membership.