Le date riguardanti la vita e i lavori di Orazio Borgianni non sono ancora esaustive: nacque a Roma il 6 aprile del 1574 e la sua opera più famosa, la Pala di Sezze, raffigurante la Vergine che consegna il Santo Bambino a San Francesco, fatto accaduto solo nell’immaginario francescano e dipinto per San Francesco a Ripa nel 1608, non fu ben capita per un discutibile eccesso di fasto, al punto che gli Zoccolanti che reggevano la chiesa non la accettarono e la relegarono a Santa Maria delle Grazie, nel cimitero di Sezze (in provincia di Latina).
Il grande dipinto, di cui era stata indicata l’importanza ma non l’autografia dallo studioso tardo-ottocentesco Giulio Cantalamessa che lo credette di Lanfranco, fu compreso appieno da Roberto Longhi che ne segnalò la mano e la sua eccezionalità. L’analisi dell’opera ha indicato la sua centralità per l’arte barocca e i suoi contatti con la pittura spagnola, paese col quale il Borgianni ebbe importantissime relazioni e dove soggiornò per non pochi anni a partire dal 1601 e forse addirittura da prima della fine del Cinquecento.
La fama del dipinto di Sezze venne incrementata dall’ammirazione di Longhi che la considerò uno dei grandi capolavori del primo Seicento. Questa fama, purtroppo, ebbe le sue conseguenze non solo nel bene, ma anche in un iniquo furto del 1976 che armò qualche mano miserabile riducendo la superficie del quadro a solo la quarta parte. Quel che resta è comunque impressionante e riesce a far intendere contatti del pittore ancora non del tutto precisati che includerebbero visite nel nord della penisola, da Parma a Venezia.
Orazio Borgianni è stato sempre considerato, fin dall’epoca in cui si compì la sua rinascita, ai primi del secolo scorso, un pittore caravaggesco, ma vedo, trovandomi d’accordo, che Gianni Papi, l’organizzatore della mostra di Palazzo Barberini (fino all’1 novembre, catalogo Skira, con uno scritto di Yuri Primarosa) non sembra seguire del tutto questa strada quando afferma che se aderenza al Caravaggio ci fu, questa fu più comportamentale ed esistenziale che non di linguaggio prettamente artistico. È stato sempre un pensiero dettato più dalle apparenze che dalla sostanza, quando la scuola longhiana di prima mano ebbe la tendenza a considerare ogni quadro dove dominano più l’ombra della luce, i sentimenti forti su quelli delicati o, in una parola, l’epica sulla lirica, un mondo essenzialmente caravaggesco.
A mio modo di vedere in Caravaggio non vince solo una inclinazione, ma, come in ogni artista di grande verità, i sentimenti si alternano e si oppongono e non ogni sua tela è fatta di violenza e di chiaroscuri – ci vuole altro per fare un vero genio. Arrivo a dire di più. Se qua e là queste caratteristiche possono talvolta convincere parlando di Borgianni, non è così, a mia idea, con altri pittori meno potenti come Carlo Saraceni, ragion per cui se trovo l’attribuzione proposta da Papi a Borgianni del dipinto del San Rocco nella Galleria Doria Pamphilj a Orazio Borgianni, non resto convinto: ci sono molti echi del Caravaggio, come la figura dell’angelo che sembra ricordare le varie versioni del fanciullo che monda un frutto attribuite qui e là al maestro. Comunque una cosa resta certa, il San Rocco Doria Pamphilj è un quadro più importante di quanto si è sempre creduto, versione più alta delle altre note e opera in sé stessa di grandissima poesia. Papi, come spesso gli accade, ha ragione, ma la ragione non è eternamente infallibile.
Il nostro San Rocco è troppo bello per essere di Saraceni, ma forse è anche troppo delicato per essere di Borgianni. Mi si dirà che Borgianni può essere all’occasione davvero delicato, nei ritratti ad esempio, soprattutto in un quadro che non avevo mai visto, nemmeno riprodotto: un suo autoritratto straordinario che in realtà avrei dovuto già conoscere poiché fu pubblicato nel 1962 da Hermann Voss, un sorprendente individuo che mi capitò di incontrare anni fa quando ero molto giovane e lui molto vecchio. Ricordo sempre che era grande amico di Longhi e quando morì (un anno prima del mio maestro, nel 1969), Longhi scrisse un necrologio commovente ricordando l’amore del Voss per la Francia, e una sua bella poesia nella lingua non sempre intesa fino in fondo dai tedeschi, il francese.
L’autoritratto del Borgianni (che non è in mostra) è un capolavoro, ma un capolavoro romantico, squisito e, come si accenna nel catalogo, anche narcisistico. Meglio dunque guardarsi dall’ammirazione eccessiva, persino da quella di sé stessi: per quanto lo si ami, temo non raggiungerà mai la profondità di Frans Hals o di Velázquez.
La sua indole porta Borgianni, e non potrebbe essere altrimenti, ad una nevrosi non lontana dalla pazzia, palese nel tardo autoritratto oggi all’Accademia di San Luca. Se i suoi inizi con la pala di Sezze, che nonostante il criminale attacco subito resta un capolavoro, promettevano una grandezza indiscutibile, la sua fine ci lascia in preda ad una incomprensibile agitazione.
Le sue ultime opere non riescono a mantenere lo stesso fuoco impeccabile e svelano un’inquietudine che non consente di collocarlo al fianco del Caravaggio, del Ribera, di Orazio Gentileschi o del Reni.