Era già la voce di tutte le mattine, quando lo incontrai. Abbiamo parlato raramente, più spesso negli ultimi tempi. A ripensarci bene abbiamo parlato solo di una cosa, solo di uno scrittore, di Leonardo Sciascia. «Poiché nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende». E io, cresciuto nella Sicilia interna, la Sicilia arida, in un piccolo paese all’ombra di Racalmuto, quel poco che mi è servito per partire l’ho appreso da quello scrittore.

Ci aveva ammonito sui ricordi, al punto da scoraggiare anche queste righe: «La morte è terribile non per il non esserci più ma, al contrario, per l’esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restano». Anche questa profezia di Sciascia mi si è sembrata avverarsi, spesso contro Sciascia. Solo pochissime eccezioni, su tutte Bordin. Parole che suonavano autentiche ogni volta che era lui a richiamarle, nelle chiose alla rassegna stampa mattutina, nelle conversazioni e nei convegni che moderava o ravvivava, nelle presentazioni dei libri cui partecipava e cui a me, più spesso, capitava di accompagnare Emanuele Macaluso.

Collaboravo con il Riformista che diresse in tarda età, e lì incontrai Bordin per la prima volta. Riparlandone, anni dopo, quando la stessa parola riformista sembrava pervertirsi nel suo contrario, di quel giornale aveva un ricordo mitologico. E un merito certamente lo ha avuto. Se non sbaglio, fu il primo spazio in cui Bordin tenne una rubrica quotidiana, trasferendosi poi sul Foglio di Ferrara, la cui Bordin Line divenne presto la mia seconda lettura (spesso di due) su quel giornale, dopo la piccola posta.

È stato ricordato, assai meglio di quanto potrei fare io, il legame di Bordin con lo scrittore agrigentino e con la Sicilia, con la luce e il lutto di Palermo e dei suoi tribunali, le ingiustizie e le inquisizioni di ogni epoca. Una volta mi colpì una sua frase: «Sciascia non era garantista», a proposito dei suoi racconti di ambientazione giudiziaria in cui i protagonisti, con un’unica eccezione, non erano giudici, ma investigatori. Non era un modo di prendere le distanze dal termine. Garantisti si dev’essere, come vuole la Costituzione, ma il radicale Bordin voleva squarciarne il velo di ambiguità che col tempo aveva avvolto la parola. «Questione di sfumature ma decisive». E prendeva a prestito una citazione sciasciana ritrovata da Guido Vitiello: «Io non sono un garantista: sono uno che crede nel diritto, che crede nella giustizia». Per poi chiosare: «Sciascia credeva nella giustizia secondo diritto, che è fatta anche di sostanza». Quella sostanza, credo, per Sciascia e per Bordin, era la giustizia sociale.

Seguendo quel ragionamento, trovavo non solo il modo di restituire a Sciascia un po’ dell’eresia che rischia di perdersi nella memorialistica liberale amica, ma un po’ elitaria e ideologica. Trovavo soprattutto la conoscenza profonda dell’universo morale in cui maturava la sua vocazione di scrittore, nella compassione per i poveri di Regalpetra. È lo Sciascia giovane, uno Sciascia “sociale e spagnolo”, rimasto un po’ in ombra rispetto allo Sciascia maturo, lo Sciascia “civile e francese”, celebrato per le sue battaglie illuministe, radicali, liberali. Francia o Spagna, anche questi sono schematismi, lo so. Ma quella tensione sociale legata alle “cose di Spagna”, maturata negli anni dell’antifascismo e testimoniata dallo straordinario racconto l’Antimonio, si rintraccia in tutta la sua attività di scrittore. Ed è la sostanza della sua idea di giustizia e di libertà. Non a caso, il libro fra tutti prediletto, con il personaggio (storico) a Sciascia più caro e la tentazione di riscriverlo che non lo abbandonerà per tutta la vita, come alla ricerca di una più profonda verità, è Morte dell’Inquisitore. Forse proprio perché non arriva a dimostrare ciò che nel gioco delle supposizioni può solo ipotizzare, e cioè che l’eresia di Fra’ Diego La Matina fosse un’«eresia sociale», per non dire socialista.

Di questo abbiamo parlato, ogni volta che abbiamo parlato. Di Sciascia nella Caltanissetta del precoce dopoguerra, raccontato da Macaluso nel suo Leonardo Sciascia e i comunisti, della mafia e dei baroni, della civiltà e della miseria ai tempi dello zolfo. E ancora prima, degli anni fascismo, della noia e dell’offesa, di quel paradosso di Brancati (l’autore a Sciascia più prossimo, letto e scrutato negli anni in cui insegnava nella scuola magistrale che il giovane Leonardo frequentava), secondo cui in Sicilia, in quel dopoguerra, «essere liberale, bisognava votare almeno comunista». «Eccerto», diceva a quel punto Bordin, e non saprò mai se fosse assenso o solo una conferma della citazione. Però, Luigi Manconi, in un bellissimo ricordo raccolto da Marianna Rizzini sul Foglio, pochi giorni dopo la sua scomparsa, ha parlato della sua militanza giovanile trozkista, e al manifesto, nella sinistra, richiamata da troppi come poco più di un vezzo ma che invece emergeva ogni volta che «un conflitto andasse all’essenziale della questione»,«Da Bordin mai si è sentita una frase che non rispettasse il valore del lavoro salariato, della classe operaia, degli ultimi nella scala gerarchica». E degli ultimi tra gli ultimi, ovviamente, i carcerati.

L’ultima volta ne parlammo alla fine di un dibattito su un mio libretto socialista, che la vostra Daniela Preziosi moderava e in cui, tra le altre cose, si discuteva della crisi del liberalismo proprio per aver troppo a lungo trascurato la giustizia sociale. Bordin non la trascurava mai, nemmeno quando rivolgeva le sue critiche alla cronaca della sinistra e dei suoi interpreti attuali. In quell’occasione scoprii di far parte di una cerchia, non so quanto larga, di genitori i cui bambini, nell’età in cui chiamano tutti per nome, avevano singolare familiarità con quella voce che accompagnava colazioni e pannolini, e quel cognome, “Bordin”. All’inizio dell’anno scorso, felicitandomi per una tosse che era passata, al tempo in cui la tosse non ciallarmava poi tanto, fu il mio piccolo quattrenne a notarlo: «è passata anche a Bordin». Glielo raccontai, ne rise. E io mi accorsi tardi che non era una buona notizia.

Così, si spense la voce di tutte le mattine. Il giorno dopo, molti ricordi indugiavano sulle sue ultime parole alla radio, pronunciate con l’accento inconfondibile e la voce di naso, ma grave, di gola sempre più tormentata dalla tosse. Non era vero. Negli ultimi tempi si era come liberata, diventata più acuta, soave, lieve. Lo notai anche l’ultima volta che lo vidi, a una cena, il 21 di marzo, in cui con il compleanno di Macaluso si festeggia l’inizio della primavera, o viceversa. Quest’anno non abbiamo festeggiato, e la primavera è arrivata e non abbiamo potuto accorgercene.

Mi è capitato, in queste notti di quarantena e poco sonno, di riascoltare quella voce mattutina nell’archivio di RadioRadicale. L’ultima volta, un convegno a Racalmuto, sull’Affaire Moro quarant’anni dopo. Bordin fece un discorso bellissimo, partendo dalle finzioni di Borges, dal Don Chisciotte di Menard, fantomatico scrittore francese che riscrive in tutto e per tutto il capolavoro della letteratura spagnola. Francia e Spagna, ma va be’. Bellissimo era lui, Bordin, avvolto nel suo abito bianco di lino, nel fumo bianco del suo sigaro tra i bianchi capelli. In quella sera siciliana di settembre, un’istantanea lo ritrae per le strade del borgo e ce lo restituisce per sempre come cavaliere dalla figura non triste – «con una nuova ragione per essere felice, o quasi», notò il fotografo d’eccezione.

Il libro di Sciascia su Moro si apre con una citazione di Elias Canetti che ne racchiude il senso: «La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto al momento giusto». È tratta da La provincia dell’uomo, in cui lo scrittore bulgaro raccolse alcuni dei suoi aforismi contro la morte. Bordin certo ci sarà tornato su quel libro, lui che aveva letto tutti i libri. Lo riprendo. Cerco la frase, leggo quella immediatamente successiva: «Ciascuno è troppo buono per morire? Questo non si può dire. Ciascuno, prima, dovrebbe vivere più a lungo».