Due piedi calzati di pattini bianchi -le lame incastrate in cubi di ghiaccio. Il quadro dell’immagine si apre e scopriamo Laurie Anderson, armata di violino, pronta a suonare fino a che il ghiaccio si scioglie al punto di farle perdere l’equilibrio. Sullo sfondo il profilo del Campidoglio. Il 10 ottobre scorso, l’artista newyorkese ha replicato, nel giardino dell’Hirshorn Museum di Washington (che le dedicherà una grande mostra nella primavera 2021), una delle sue performance storiche, Duets on Ice – messa in scena per la prima volta nel 1974. Alla fine della performance, Anderson ha invitato il pubblico a unirsi a lei e a camminare fino alla Casa bianca, dove Donald Trump aveva previsto un’apparizione. Quando sono arrivati il comizio era già terminato. Ma la semplice idea di quella «passeggiata» sembra emblematica dell’inevitabilità, per un artista, di chiedersi come/se interagire con/contro la realtà di questo presidente. Engage o chiudersi nel proprio lavoro, aspettando che «finisca»? Dopo mesi di attivismo via Zoom più o meno riuscito, e pause di sconforto, il mondo dello spettacolo USA sta riversando in TV e online un massiccio flusso di contenuto anti trumpista -che va dalla performance art, al documentario investigativo, a quello epico; al musical, alla miniserie, al drammone giudiziario da Oscar.

Che faccia differenza o meno, tra adesso e il 3 novembre è quasi irrilevante. Il più freneticamente fecondo di tutti è Alex Gibney che ha fatto uscire in tempo per il voto, e in simultanea, un film sul rapporto tra Trump e la pandemia, Totally Under Control, e una miniserie HBO sulle interferenze russe nelle elezioni del 2016, Agents of Chaos. Anche il timing dell’arrivo su HBO della trasposizione filmata (da Spike Lee) del magnifico spettacolo di David Byrne, American Utopia, non è casuale -il messaggio è trasparente, riprendiamoci il paese. Non c’è ironia. Al punto che Saturday Night Live è stato sgridato perché metteva la situazione troppo sul ridere. A questo spintone artistico generale (che si unisce a quelli politici, mediatici, economici e individuali, di milioni di noi), per liberarsi «dell’incubo» si è aggiunto ieri -come uno stealth, e molto contro l’aria del tempo, BoratSeguito di film cinema. Consegna di portentosa bustarella a regime americano per beneficio di fu gloriosa nazione di Kazakistan, l’attesissimo sequel delle (dis)avventure del telegiornalista kazako Borat Sagdiyev, Borati- Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan, uno dei blockbuster del 2006.

Targato Amazon e non più Fox (che oggi è Disney) e girato in ribalda segretezza subito prima della pandemia, il nuovo Borat ripropone il formato mockumentary situazionista dell’originale con un problema in più: visto il successo del primo film, è molto più difficile per Borat/Sacha Baron Cohen operare in situazioni di candid camera. Per ovviare al problema, il comico ebreo/inglese ha usato due stratagemmi: una serie di parrucche, nasi finti e imbottiture che lo fanno sembrare grassissimo e (l’arma migliore) l’introduzione di un nuovo personaggio. Nel prologo scopriamo che il filiforme reporter -punito per aver coperto il Kazakistan non di gloria ma di vergogna (nella realtà, dopo l’uscita di Borat, il governo kazako acquistò una pagina pubblicitaria sul New York Times denunciando il film) – ha passato gli ultimi anni seppellito in prigione – «cancellato» pure dei suoi pelosissimi figli maschi. Ma viene liberato dalla segreta quando le autorità kazake decidono di ingraziarsi l’attuale presidente americano, che li attira molto vista la sua affinità con altri despoti. La nuova missione americana di Borat consisterà nel consegnare al suo vice, Mike Pence, una mascotte nazionale; e quando questa viene meno a sorpresa, in una scena buffissima, di consegnarli al suo posto Tutar, la figlia quindicenne che ha appena scoperto di avere (interpretata dall’attrice bulgara Maria Bakalova).

Per questo suo nuovo road movie nell’Heartland americano – dal Texas, dove sbarca, alla Conservative Political Action Conference (in cui Borat si infila prima in cappuccio bianco da Ku Klux Klan, e poi travestito da Trump -prima di essere buttato fuori dalla scorta di Pence), alla suite newyorkese in cui Tutar candid-intervista un Rudy Giuliani sempre più mellifluo e confuso, Baron Cohen (coadiuvato da sette sceneggiatori) ha fatto tesoro della satira di Mark Twain, nel suo mix di ferocia, oltraggio e leggerezza.

Paradossalmente, tra gag sull’aborto, sul ciclo mestruale, canti patriotico/razzisti contro Obama, battute a non finire su bambini chiusi in gabbia e una coabitazione di giorni con due seguaci di Qanon, Borat 2 lavora su un registro di comicità più raffinata, dolce e giocosa, rispetto per esempio a quella «frontale» adottata da Baron Cohen nel suo ultimo programma televisivo, Who Is America? E se il coefficiente sorpresa del film è prevedibilmente minore rispetto al 2006, la presenza entusiasta di Bakalova contribuisce l’energia necessaria a tenere alta l’allegria generale. Borat 2 è infatti un po’ il romanzo di formazione di Tutar che, dal pollaio kazako dove è rinchiusa in stato semi-ferale, sogna di passar di grado verso una gabbia dorata bella «come quella di Melania».

Fallito il tentativo di regalarla a Pence, per riscattare l’onore della patria, Borati decide di ripiegare su un altro sgherro trumpista, Rudy Giuliani. Ma, tra una visita al chirurgo plastico, quella a un consultorio gestito da fondamentalisti religiosi e il pomeriggio passato con una baby sitter afroamericana, Tutar decide di emanciparsi, piantandolo in asso. Sarà lei, nel suo nuovo ruolo di telegiornalista modello Fox New dell’Europa dell’Est, a «far fesso» Rudy. Quando un clip della scena -che include un’immagine dell’ex sindaco di New York sdraiato su un letto che si rimette a posto la camicia nei pantaloni, è stata messa in rete, il Guardian ha immediatamente gridato allo scandalo sessuale. Il che è fondamentalmente ridicolo e prova che quando è fatta veramente bene la satira funziona doppio taglio.